42 inediti di Federico Fellini alla biennale del disegno di Rimini

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Sono ben 42 i falli disegnati da Fellini, una vera ‘falloforia’ che l’artista aveva regalato all’amico e sceneggiatore Tonino Guerra, in un breve arco di anni racchiusi tra due film epocali, Amarcord (1973) e Fellini Casanova (1976). E che ora rivedono la luce dopo oltre quattro decenni grazie alla terza edizione della Biennale del Disegno che si è appena aperta a Rimini, fino al 15 luglio.

La sezione felliniana, curata dalla Cineteca riminese, è stata allestita al terzo piano di Castel Sismondo, un empireo a cui si accede opportunamente dopo aver superato i vari gironi della mostra. Non esiste catalogo, quindi chi vuole ammirare i nobili e divertentissimi falli, deve recarsi di  persona sul posto; una buona occasione per rivisitare la rocca malatestiana elegantemente risistemata all’esterno, per poi proseguire verso le altre location distribuite nel centro urbano. Un evento benedetto dal sindaco Andrea Gnassi e che l’assessore alla cultura Massimo Pulini, essendo un pittore, ha trasformato con autentica passione personale in un appuntamento culturale immancabile per tutti coloro che desiderano tenersi aggiornati sullo stato di salute del disegno nel nostro panorama espressivo. Con l’aggiunta di saporite incursioni nella tradizione storica: dai ghiotti falsari del Guercino, al fantasioso secentesco Stefano della Bella, da Alfonso De Carolis celebre esponente dello stile liberty, fino a Giorgio Morandi;  e a un disinvolto Pablo Picasso ‘erotico’ che funge da anello di congiunzione con i “disegni nel cassetto” di Fellini: quanto di meglio per il tema della Biennale 2018 individuato nel titolo: “Visibile e invisibile, desiderio e passione”.

Federico identificava oniricamente in Picasso la forza creativa, “genitale”; e parlando di lui con vivissima ammirazione ne rievocava lo sguardo in cui sembrava ardere un incendio. Il fuoco di Prometeo? Ne troviamo testimonianza nel Libro sei Sogni, unico cassetto segreto del regista, che in genere della sua produzione artistica non faceva misteri. Come è noto i suoi set si nutrivano dell’ avvicendarsi di ammiratori, studiosi, chierici vaganti di tutto il mondo: la corte aperta di un artista rinascimentale che rendeva spettacolare il magma della creazione. E poiché le sue idee nascevano dai sogni e dai disegni (Fellini Sueño y Diseño si intitola la mostra di Madrid che ora proseguirà a Buenos Aires e altre città del Sudamerica), anche le figure che prendevano vita dalla sua penna, affioravano non di rado sotto gli occhi dell’interlocutore di turno, nel suo ufficio di Cinecittà o di Corso d’Italia, oppure al tavolo dei ristoranti. Federico disegnava continuamente, compulsivamente e felicemente; e non aveva nessuno scrupolo a lasciar girare i suoi ‘scarabocchi’, di qualunque natura essi fossero. I disegni, della medesima sostanza dei sogni, non conoscevano censure; al contrario esercitavano un’influenza liberatoria, rivelatrice; e regolarmente venivano regalati ad amici e collaboratori, ospiti, belle signore, che lo avevano per un attimo incuriosito ed erano stati modelli inconsapevoli del suo estro. Solo l’editore Daniel Keel della Diogenes Verlag di Zurigo, negli ultimi tempi era riuscito a convincerlo della preziosità di quelle sue opere estemporanee, suggerendogli di amministrarle con maggior criterio; di inviarle cioè alla casa editrice che le avrebbe poi messe sul mercato con dosaggi studiati e strategiche esposizioni; prima tra tutte la ‘personale’ organizzata a Parigi nel 1987.

Stilisticamente i disegni inediti della Biennale riminese sono interessanti perché a una analisi formale mostrano il passaggio dal puro segno grafico a inchiostro nero o blu, da penna biro o stilografica, all’avvento del colore; dapprima distribuito con minime tracce, punti di luce accennati quasi per gioco, in seguito disteso a campiture che prendono il sopravvento e diventano elemento compositivo grazie all’uso dei pennarelli ad alcol. E’ lo stadio immediatamente antecedente la fase pittorica, che esplode con sempre maggior urgenza nella seconda metà degli anni Settanta durante la preparazione del Casanova. Mentre i disegni su stoffa – tovaglioli, tovaglie, fazzoletti – continuano per praticità ad essere eseguiti a penna biro, i bozzetti su carta si evolvono. Il regista tiene davanti a sé, sulla scrivania, risme di fogli extra strong che anima di figure colorate con le felter pen  delle scatole di latta Staedler, magiche tavolozze da cinquanta  sfumature. Le finiture vengono ripassate preferibilmente a inchiostro di china. Da quel momento il colore acquisterà un progressivo dominio sulla linea, pur con un debito ancora palese al gusto del fumetto. Fino a quando l’associazione luce-colore diventerà dichiaratamente pittorica. Nel 1991 quando gli chiesi un’immagine per il manifesto del Festival di Salsomaggiore, Federico rivisitò al pennarello il pavone di Amarcord; ma in seguito, per la stesura finale, si recò nello studio di Rinaldo Geleng per ridipingere il soggetto a olio. I fogli di extrastrong restano idealmente le sue tele, ma sempre più spesso essi vengono sostituiti con carta di Fabriano, più consistente, comprata a blocchi; la medesima che viene utilizzata per il secondo volume del Libro dei Sogni.

Ma siamo ormai ai primi anni Novanta, immediatamente precedenti la sua scomparsa, quando  gli schizzi a ispirazione libera appaiono veri e propri dipinti espressionisti. I numerosissimi disegni preparatori per le riprese di La voce della luna costituiscono di fatto un compiuto corpo pittorico.  E l’ultimo ciclo organico da lui realizzato, 29 tavole sfrenatamente erotiche di cui non poche in grande formato (A3), sono state eseguite in tecnica mista (tempera, matita grassa, pennarello ad alcool, carboncino) e regalate a Gianna Cobelli con il proposito e la consapevolezza di un lascito.

L’intero percorso tecnico-espressivo dell’artista è peraltro ben testimoniato dai disegni che hanno per soggetto Norma Giacchero, la mitica “Normicchia”, inseparabile segretaria di edizione da “Giulietta degli Spiriti” fino agli ultimi spot girati per la Banca di Roma nel 1992. Questo fondo acquisito a suo tempo dalla Fondazione Fellini, davvero magnifico per la sua varietà, è esposto a Castel Sismondo quasi a controcanto ed esaltazione della raccolta di Tonino Guerra. La quale, abbiamo premesso, mette in scena il fallo autocratico sorpreso in molteplici variazioni: alcune tra le tante che Federico partoriva a getto continuo. Esilarante nel ricordo l’incarnazione fallica di Fantomas, l’inafferrabile criminale con la mascherina nera sugli occhi, accompagnata dalla didascalia: “Sono Cazzomàs, entro in ogni pertugio!”

Nella cultura dell’antica Grecia la “falloforia” era la processione propiziatoria per il raccolto, un vivace corteo in cui veniva trasportato a braccia un enorme membro di legno, simbolo di fertilità. I disegni di Fellini adempiono a una funzione non dissimile; rappresentano il rito con cui l’artista fecondava la propria fantasia, una sorta di leva maieutica al servizio del parto di un nuovo progetto cinematografico. Ma agivano anche da generico propulsore di vitalità creativa.

I falli di questi disegni vengono chiamati ‘prick’, con il termine anglosassone, in omaggio a un bizzarro straniamento, un alleggerimento del contenuto meramente sessuale grazie e quel suono che allude a un gioco circense, clownesco, da fanfara. Il membro virile acquista qualsiasi forma e funzione (carattere dionisiaco per eccellenza!) diventando unico strumento di lettura della realtà circostante. C’è il fallo a periscopio del marito imprigionato nella gabbia matrimoniale, che si erge in esplorazione della donna nuda e appetitosa alla finestra; c’è quello del fachiro, che si inturgidisce al suono del piffero come un serpente a sonagli; c’è il gigantesco – ma tutti sono giganteschi ed eretti! – Monk Prick che mostra in punta la tonsura monacale. “The ass prick” ha il glande a forma di chiappe femminili; il “Royal prick” indossa ermellino e corona; il “Motta prick” riproduce fedelmente il panettone di Natale. Il “Tired prick” striscia a terra, sfinito; l’ “Eagle prick” sfoggia due potenti ali da rapace; il “Baby prick” porta una cuffietta da neonato. Lasciamo al lettore la gioia delle scoperte. Ci sono i cazzi che svolgono funzioni utili: c’è quello alto e massiccio che funge da pietra miliare con l’indicazione Km 180; un altro, simile all’antenna del tram, si aggancia in alto alla rete elettrica aerea; lo “Shadow-palma prick” è idoneo a spargere ombra. Un “Very old prick”, decrepito, esibisce la barba bianca e fluente. Il prick “Scotaland Yard” si fregia del  rigido copricapo dell’agente inglese. Due gentiluomini con il gibus in testa incrociano in duello i membri come potenti spadoni. Non manca il “Man without prick” l’omino sprovvisto, con la faccia rossa di vergogna; e, al contrario, il “Prick without man” indipendente e autosufficiente. Un vero baccanale di risate, ma non soltanto, tra compagni ameni, sorprendenti, ridicoli, spassosi, farseschi; fino all’immancabile “The End Prick” che mette la parola fine alla rappresentazione. Come avverrebbe sullo schermo.

I visitatori si soffermano e sorridono sotto i baffi, le visitatrici ridono apertamente ed esprimono meraviglia e curiosità per tanta pirotecnica immaginazione fallocentrica, riuscendo forse a percepire un messaggio più profondo che la fiammeggiante festa dionisiaca nasconde alla prima occhiata.


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