L’ilare racconto crudele di Emma Dante (Al Teatro di Rifredi di Firenze)

0 0

Come nel Krapp di Beckett la vita, o meglio il desiderio di essa , l’illusione che possa esserci una vita, è alle spalle. Il tempo, nella catapecchia sporca, nun passa cchiù e le due sorelle centenarie, annidate nel buio della miseria e della solitudine sperano che esista una scorciatoia in grado di abbreviare il cammino verso la morte. I corpi si deformano progressivamente, le ossa si irrigidiscono in posture abnormi, il lezzo della vecchiaia si diffonde nel vascio.

Molto sembra sapere Emma Dante delle piccole trincee che scavano gli anziani per difendersi dal senso crescente di deprivazione. Tocca corde profonde nel mostrare la gelosia delle piccole cose: una borsetta nera custodita con apprensione rapace, una fetta biscottata, dieci monetine. Oggetti apparentemente banali che proteggono dallo spalancarsi dell’eternità e quietano, fanno sentire meno inermi e vulnerabili.

Non sono mai state belle, le due donne, nemmeno da criature, ma adesso fuggono addirittura lo sguardo umano per non sentirsi umiliate dal disgusto altrui. Passano il tempo che non passa fra simmetriche recriminazioni riguardanti occasioni capitate in gioventù e svanite nel nulla (in realtà mai davvero esistite, però se una vita non c’è stata è necessario inventarla per non impazzire di dolore), e vicendevoli rimproveri sulla scarse capacità domestiche. Sono però inscindibili, legate da un rapporto fusionale formatosi nel corso di un secolo trascorso insieme, e ancor più legate, nel presente, dagli impedimenti dell’età: si tengono le mani per potersi cautamente sedere sulle due seggiulelle che si trovano nella stanza. Dopo una troppo lunga solitudine a due, l’altro diventa un’ombra molesta che impedisce il cammino, un avversario, e nello stesso tempo ciò che protegge dalle possibili insidie del mondo circostante.

Dentro un tempo che non passa e che diventa carcere, cosa si può fare? Cosa fa di solito ogni essere umano se non immaginare? Così, ogni giorno, le due sorelle si raccontano e mettono in scena, come in una liturgia claustrofobica alla Genet, la fiaba del Re che si innamora perdutamente della voce meravigliosa di una delle due sorelle e non smette più di bussare alla porta, descrivendo la passione che gli brucia le viscere e invocando colei a cui la sua passione dona le forme di un’innocente, bellissima fanciulla.

La vecchia promette di mostrare un dito, il mignolo, infilandolo nel buco della serratura, e per rendere questo dito liscio come quello di una giovinetta le due donne sucano freneticamente giorno e notte i rispettivi mignoli, in una sorta di gara dispettosa e disperata. Nell’ilarotragedia di Emma Dante, i due impressionanti attori Carmine Maringola e Salvatore D’Onofrio, nel continuo variare dei ruoli all’interno della fabula germinata entro la decrepitezza delle vecchie, riescono a diventare le forme descritte dallo straordinario linguaggio che fonde i colori e la potenza evocativa shakespeariana con sguaiataggini da commedia dell’arte. Toccano e forse oltrepassano la genialità, insieme alla regista, nei momenti in cui la porta del vascio viene sollevata dal palcoscenico all’arrivo del Re di Roccaforte e una luce affatata, la stessa nella quale ci si può imbattere andando in giro dalle parti di Vico Lungo del Gelso fra primavera ed estate, si posa sui volti delle vecchie dissolvendo ogni infelicità. Senza dubbio viene in mente la recita “Piramo e Tisbe” contenuta nel Sogno di una notte di mezz’estate.

La più giovane delle due trascorrerà una notte d’amore col Re, però al mattino verrà fatta gettare da una finestra del castello dal sovrano inorridito. Salvata dai rami di un fico, chiederà alla Fata assai disincantata (Salvatore D’Onofrio) che proprio in quell’istante si trova a passare dal frutteto di trasformarla in una ragazza d’irresistibile bellezza.

Basta poco a Emma Dante per creare un’immagine che lo spettatore non dimenticherà più. Una parrucca rosso fiammante, due lunghi guanti e un abito giallo i cui bordi vengo aperti a semicerchio per creare una trasparenza dorata ed effimera. Il Re, rapito in estasi, chiede la ragazza in sposa, però nell’illusionismo non può esserci lieto fine. L’affabulazione termina in pianto ricadendo su se stessa, la più giovane delle sorelle, stanca delle favole e di essere vecchia, chiede all’altra di essere scortecata, affinché, tolta la pelle indurita e grinzosa, possa nascerne una nuova, liscia. La liturgia termina un attimo prima del martirio, con una composizione figurativa crudele che le luci rendono caravaggesca.

Si ha il sospetto che Emma Dante insinui con grande acutezza nella carne e nel sangue della Scortecata, qua e là con forti venature ironiche, l’idea che l’immaginazione non sia poi così salvifica, ed anzi, inducendo a rimuovere, o mettere temporaneamente in un angolo, angosce, fallimenti e miserie, causi un ristagno dell’esistenza e un’irrimediabile accelerazione verso la morte.
Applausi a scena aperta e una ben più che meritata standing ovation finale.

“La Scortecata” liberamente tratto da lo cunto de li cunti – di Giambattista Basile 

testo e regia Emma Dante
con  Salvatore D’Onofrio, Carmine Maringola
elementi scenici e costumi Emma Dante
luci Cristian Zucaro
assistente di produzione Daniela Gusmano
assistente alla regia Manuel Capraro
produzione Festival di Spoleto 60, Teatro Biondo di Palermo
in collaborazione con Atto Unico / Compagnia Sud Costa Occidentale


Iscriviti alla Newsletter di Articolo21