l tenebroso Fra Giacinto, tutto pistola e frustini

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Di di Enzo Mignosi

Era alto e bello, aitante e tenebroso. Aveva i capelli d’argento, gli occhi magnetici, il volto da attore. Era un frate. Un frate francescano.
Si chiamava Stefano Castronovo, fra Giacinto per l’ordine dei Padri Riformati. Ma intorno al convento di Santa Maria di Gesù, dove trascorreva i suoi giorni di uomo consacrato al Signore, gli avevano affibbiato un soprannome che diceva tutto, “frate lupara”, anche se insieme alla corona del Rosario, nel cassetto della sua cella, nascondeva non un fucile ma una pistola calibro 38, sempre carica e con il colpo in canna. “La mia passione è il tiro a segno”, diceva per spegnere ogni maldicenza.
Lo uccisero nel monastero il 6 settembre del 1980. Un’imboscata in perfetto stile mafioso, un delitto anomalo che sconvolse la borgata ai piedi del Monte Grifone, tra le campagne di Ciaculli e Belmonte Chiavelli, da sempre in mano alla famiglia Bontade, vecchia mafia, proprio nei giorni che preparavano la grande guerra con i corleonesi.
Fra Giacinto era arrivato nel convento molti anni prima, accompagnato da una pessima reputazione, tra i mugugni dei superiori per nulla entusiasti di ritrovarsi nella loro comunità un confratello più che chiacchierato, e pure sanzionato dal divieto esplicito, sancito dal vescovo, di celebrare messa e pronunciare sermoni. Troppe voci, troppi pettegolezzi erano fioriti nella borgata dove i soliti bene informati ripetevano un ritornello che non faceva onore all’ordine monastico e, soprattutto, non faceva a onore a lui, fra Giacinto.
Si sussurrava che nell’antico cimitero patrizio, accanto alle vecchie mura, si celava una necropoli clandestina, che sotto terra fossero sepolte decine e decine di cadaveri. Morti di mafia.
Si parlava di boss usciti di casa e mai ritornati, di picciotti scomparsi misteriosamente. Tutti vittime della lupara bianca. Strangolati e seppelliti in un cimitero, dove nessuno li avrebbe mai cercati. Si parlava di fra Giacinto come di un donnaiolo impenitente, di un uomo assetato di denaro, capace di tutto, perfino di trasformare la casa di Dio in una centrale dell’usura. Si malignava sui suoi incontri notturni con ambigui personaggi mai identificati, forse agenti che raccoglievano le soffiate del monaco.
Altro ancora si raccontava. Per esempio, che tra i cipressi secolari latitanti di alto rango avessero trascorso tante notti serene, lontani dai pericoli di un’improvvisa retata. Come Luciano Liggio, l’inafferrabile primula corleonese a lungo inseguita dal vicequestore Angelo Mangano.
Poi c’erano i fatti, noti e conclamati. Soprattutto gli stretti rapporti tra il frate e i Bontade, padre e figlio: don Paolino, l’anziano patriarca che aveva schiaffeggiato pubblicamente un deputato monarchico che si era rifiutato di seguire le sue indicazioni di voto, e Stefano, il “principe”, destinato a diventare il numero uno di Cosa Nostra prima di finire sotto il tiro dei corleonesi. Fra Giacinto era di casa nella villa dei boss, a Villagrazia, trattato con il riguardo e il rispetto dovuto alla gente che conta. E i Bontade ricambiavano spesso le visite recandosi in convento per lunghe e segretissime conversazioni, al riparo da occhi indiscreti.
Troppo amici, troppo vicini, il francescano e i mafiosi. Lo sapevano tutti a Santa Maria di Gesù, e la domanda correva di bocca in bocca: chi era quel frate bello e tenebroso, che ai rigori della vita monastica preferiva la mondanità dei salotti borghesi, assiduo frequentatore dei palazzi del potere romano, grande elettore democristiano, legato a Giovanni Gioia, l’ex ministro che rastrellava i voti del clan Buscetta, e all’eurodeputato Salvo Lima, forse ritualmente affiliato a Cosa Nostra? Come conciliava l’abito sacro che portava addosso con le sue relazioni disinvolte e spericolate?
Gli spararono a bruciapelo due killer sbucati dalle nebbie alle nove del mattino, quel fatale 6 settembre di trentasette anni fa. Il frate se li ritrovò davanti alla sua cella, al secondo piano del convento. Non gli lasciarono scampo. Due pallottole gli spaccarono il cuore, due gli squassarono la testa. Nessuno vide e sentì nulla.
Un’ora dopo, quando i poliziotti della scientifica arrivarono in convento, le sorprese non mancarono. Fra Giacinto aveva fatto voto di povertà ma viveva in una suite con sette stanze, due riservate alle visite pubbliche e private, cinque destinate a camere da letto. Gli arredi erano elegantissimi, le poltrone in pelle, i mobili ricercati. L’alloggio trasudava ricchezze da ogni angolo. C’erano una biblioteca con centinaia di libri pregiati, la tv a colori, un bar personale con un’incredibile varietà di liquori, un impianto stereo hi-fi.
Gli agenti trovarono anche la pistola Walther P38, una collezione di frustini e cinque milioni di lire in banconote di grosso taglio. Un’incredibile quantità di elementi da valutare e da mettere in relazione a quanto sarebbe successo sette mesi più tardi, con l’omicidio di Stefano Bontade e, a seguire, con quello di Totuccio Inzerillo, i padroni di Cosa Nostra. Due grandi delitti che spianarono la strada alle truppe di Totò Riina, sceso da Corleone alla conquista di Palermo. Connessione mai dimostrata.
Nessuno dei pentiti ha mai detto una sola parola sull’omicidio di fra Giacinto, rimasto il mistero più impenetrabile di quegli anni di piombo. Il caso fu archiviato dopo mesi e mesi di giri a vuoto. Nessun testimone, nessuna ipotesi concreta, nessun colpevole.
Solo Leonardo Sciascia, sebbene poco incline ai facili sospetti, si sbilanciò sul movente in un articolo pubblicato dal Corriere della Sera dopo qualche tempo. Lo scrittore di Racalmuto tuonò contro la storia oscura di certi conventi siciliani e si lasciò andare a pesanti allusioni contro il monaco (“era un soggetto ben noto per i suoi intrallazzi e i suoi libertinaggi”), sposando infine la tesi che fosse un confidente della polizia in piena attività. Fra Giacinto, disse Sciascia, era stato ucciso dalla mafia per le sue soffiate. Era morto da spione.

Da mafie


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