Quei figli (mafiosi) dell’era digitale

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di Hermes Mariani

Doppiopetto, accento british e ventiquattro ore: lo stereotipo del mafioso moderno è servito. Sono in tanti a pensarla così, eppure l’evidenza empirica ci dice altro, il mafioso resta nel tempo antropologicamente più simile a se stesso di quanto si possa immaginare.
Ma le generazioni cambiano e internet è oggi nelle tasche di chiunque. Emergono nuove modalità di comunicare, grazie alla messaggistica istantanea e ai social network: è il web 2.0. Nuove forme socio-tecnologiche dunque, realtà online in profonda continuità con i processi già attivati nella vita “reale”, offline, che permettono di comunicare con chiunque, in qualunque luogo e in ogni momento e che fanno dell’individuo un medium. Così anche i mafiosi e i loro figli per primi, si ritrovano ad avere un profilo Facebook.
È il caso di Salvo Riina, figlio di Totò u curtu, “la belva”, che si reinventa scrittore dopo una condanna per mafia e pubblicizza  su Facebook il suo libro, “Riina Family Life”. E sempre su Facebook decide di salutare pubblicamente suo padre morente, seguito da decine e decine di persone che commentano “baciando le mani” al “capo dei capi”, temuto e riverito fino all’ultimo dei suoi giorni. Uomo d’onore perché “rimasto muto fino alla fine”.
Ma la creatura di Zuckerberg non viene utilizzata solo per fare le condoglianze alla famiglia del boss dei Corleonesi. Su Facebook gli Spada parlano e danno ordini. È quello che succede a Ostia, X Municipio di Roma (sciolto per mafia), dove Roberto Spada, prima ancora della famigerata testata, ha espresso la propria preferenza di voto per il candidato di Casapound con un post pubblico. Molto attivo sui social, Roberto, fratello del boss Carmine, detto “Romoletto”, avrebbe minacciato la giornalista Federica Angeli – che denunciava i traffici del clan – dandole della “scrofa giornalaia”. Controllo del voto e intimidazioni, ma non solo. Roberto Spada sa usare Facebook a 360 gradi, gestendo le pagine del bar e della palestra di famiglia, oltre che per salutare gli “amici carcerati” durante le feste comandate.
“Sei bella come una questura che brucia”, la dedica scritta da un giovanissimo camorrista del rione Sanità sul suo profilo, dove posa con armi in mano, ostenta ricchezza e potere. Sì perché ciò che un tempo veniva fatto fisicamente per le strade ora si fa nelle piazze virtuali.
Figli dell’era digitale, anche i rampolli della ‘Ndrangheta hanno dimostrato di saper coniugare l’arcaica cultura mafiosa con le moderne forme di comunicazione messe a disposizione dai social network. E così si taggano nei locali con costose bottiglie in mano, in fotografie armati fino ai denti o in video rap inneggianti alla mafia. Trasmettono messaggi all’esterno del clan, in una piazza virtuale che, però, non rimane tale: perché le armi, le intimidazioni, il fuoco, sono veri. Sanno che utilizzare i social network li espone e attira l’attenzione, ma lo fanno lo stesso. Sono consapevoli dell’enorme portata dei loro messaggi e degli effetti che questi hanno tra i loro conterranei, non solo tra i più giovani.
Mafiosi moderni, più spregiudicati dei loro padri, che non mantengono più un basso profilo come i loro nonni. Hanno il potere e lo vogliono ostentare, tutti devono sapere chi comanda. Tutti devono sapere cosa sono disposti a fare per mantenerlo. Veicolano cultura mafiosa in rete, indicando lo Stato, gli sbirri, gli infami come nemici pubblici. “Non vedo, non sento, non parlo”. Invece parlano, e parlano molto. Messaggi intimidatori, indicazioni di voto, dimostrazioni di forza, controllo del territorio, messaggi d’affetto per amici e parenti carcerati. La cultura mafiosa viaggia anche tramite pagine Facebook da decine, centinaia di migliaia di fan: “Onore e Dignità”, “Noi carcerati”, “Il capo dei capi”. Cambiano i modi di comunicare, ma i messaggi sono sempre quelli.

Da mafie


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