“Dall’India alla provincia di Latina tra agromafie, tratta e sfruttamento del lavoro”. Intervista a Marco Omizzolo

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Mercoledì scorso a Roma abbiamo incontrato Marco Omizzolo per rivolgergli alcune domande sulla situazione di agromafie e sfruttamento lavorativo in provincia di Latina. Tutti temi che lo interessano particolarmente essendo lui impegnato da anni sul territorio in qualità di sociologo e giornalista, nonché Presidente della cooperativa “In Migrazione” e facente parte della Consulta Nazionale sulla Legalità della Cgil.

La prima cosa che vorrei sapere è da dove nasce il tuo approfondimento su queste tematiche e quali sono stati i tuoi primi sospetti per incuriosirti a fare queste ricerche
Su caporalato-bracciantato o legalità?

Entrambi
Dunque, c’è una matrice comune per entrambi i temi che io ho incrociato interessandomi al mio territorio sin da giovane. Io sono parte di quella generazione che ha vissuto nella fase della prima adolescenza, o della piena adolescenza, il trauma delle stragi di mafia. Questo chiaramente ha condizionato la mia riflessione. Durante la mia adolescenza, prima come attivista e con un approccio molto localistico, mi interessavo alla questione legalità che riguardava prima il comune di Sabaudia, poi mi sono specializzato sul tema delle ecomafie, essendo stato un attivista e una persona impegnata in Legambiente. La questione dei migranti e quindi dello sfruttamento lavorativo, del caporalato, della tratta, delle agromafie in generale, è diventato più strutturato nel momento in cui mi fu chiesto di scrivere la mia tesi di dottorato e di individuare un tema che doveva riguardare le migrazioni. Volendo io intercettare e comprendere la questione dei braccianti indiani nel mio territorio, ho iniziato ad indagarlo fino a individuare gli elementi propri del caporalato e della tratta internazionale che sono diventati uno degli elementi centrali della riflessione sulle agromafie. Quindi mafie, agromafie e sfruttamento lavorativo, tratta internazionale a scopo di sfruttamento lavorativo e caporalato sono in qualche modo concatenati, legati alla mia dimensione del territorio, ai miei trascorsi di attivista che poi si sono professionalizzati in questo senso. Il tema della mafie non è soltanto per me agromafie ma è molto più complesso e articolato sino ad intrecciare questioni politiche, culturali ed economiche. Ho cercando di dare un’interpretazione più sociologica del concetto di mafia, quale fenomeno sociale, culturale ed economico che vive grazie alle sue relazioni. Io parlo di “network mafioso” in questo senso. Dalla mia esperienza posso dire che le mafie e i mafiosi sono elementi che vivono proprio grazie al loro cosiddetto network mafioso.

Avevo letto che avevi aiutato gli indiani sikh a manifestare e organizzare il loro primo sciopero. Mi racconti com’è andata?
Il mio percorso è molto lungo con gli indiani sikh. La mia tesi di dottorato adottava una metodologia particolare che è quella dell’osservazione partecipata, quindi seguo questi ragazzi, faccio vita di comunità con loro, per diversi mesi mi fingo un bracciante indiano tra i braccianti indiani e per la prima volta scopro questo fenomeno particolare che è il caporalato indiano, la tratta internazionale a scopo di sfruttamento lavorativo. Sono stato bracciante indiano reclutato attraverso caporale e ho lavorato sotto padrone. Questo mi ha permesso di osservare tridimensionalmente il fenomeno e quindi capire tutte le dinamiche del reclutamento e dello sfruttamento. Per un periodo ho seguito un trafficante nel suo percorso a ritroso cioè dall’Italia sino in India, indagando come avviene il reclutamento in Punjab (uno Stato al confine tra India e Pakistan centro della comunità sikh, ndr.). Questo percorso mi ha consentito di comprendere e denunciare per primo il fenomeno, di analizzarlo scientificamente e indagarlo, raccontarlo giornalisticamente. La mia parte di attivista mi ha permesso di mantenere un legame forte e di accompagnare questi ragazzi in un processo molto lungo di emancipazione. Io non ho voluto soltanto studiare e raccontare, ma ho voluto mettere a disposizione le mie conoscenze tecnico-scientifiche e giornalistiche, per fare un percorso con loro a scopo di contrastare lo sfruttamento lavorativo e di emanciparli da questa condizione di subordinazione. Ci sono state diverse tappe molto importanti, dai progetti di educazione e formazione con i braccianti, molto innovativi, come il progetto “Bella Farnia” della cooperativa ‘In Migrazione’, come l’occupazione delle terre, esperienza straordinaria che ho fatto come unico italiano con loro, e lo sciopero che è stato organizzato dalla Comunità Indiana del Lazio, dalla cooperativa ‘In Migrazione’, dalla Flai Cgil. Portammo in quel giorno circa quattro mila braccianti a scioperare: manifestarono in piazza, pubblicamente, nel più grande sciopero degli ultimi 50 anni in Italia. Ricordo bene chi c’era in quell’occasione e so distinguere tra chi allora era presente e chi oggi dice di aver avuto un ruolo, tentando di appropriarsi strumentalmente del lavoro svolto, e in realtà non si è mai visto. Ci sono molti personaggi di questa caratura, sia tra gli italiani che anche, purtroppo, tra gli indiani. Per la prima volta, in quell’occasione, i braccianti indiani manifestarono pubblicamente e chiesero il rispetto del contratto, dei loro diritti fondamentali, condizioni di vita e di lavoro più dignitose. Questo lo si è potuto realizzare con questo rapporto caldo che ho mantenuto con questa comunità e grazie alla fattiva collaborazione con il sindacato e con Gurmukh Singh, capo della comunità indiana del Lazio.

Volevo sapere, da quello che hai accennato, come si verifica la tratta internazionale a scopo di sfruttamento lavorativo dal Punjab all’Italia
C’è un sistema di reclutamento che avviene attraverso una relazione tra braccianti, trafficanti indiani, faccendieri indiani residenti ancora in Punjab e imprenditori italiani che vede l’impegno di alcuni faccendieri indiani in Punjab nel reclutare questi ragazzi indiani, convincerli a partire pagando cifre tra i 10-15000 euro per arrivare in Italia convinti di lavorare nelle campagne, ma anche di ottenere condizioni di lavoro adeguate a un tenore di vita medio-alto. Arrivati in Italia si trovano invece a lavorare presso una certa azienda agricola in condizioni di grave sfruttamento. Parliamo di lavoratori che vengono retribuiti 2-3,50 euro/l’ora anche per 14h al giorno a fronte dei 9 euro lordi l’ora per 6h e 30 di lavoro previste dal contratto provinciale. In alcuni casi lavorano anche di notte, sono sempre sotto caporale e sotto padrone, vivono in condizioni di subordinazione e sfruttamento.

Però c’è sempre molto silenzio. Secondo me il silenzio, l’omertà, è duplice: da una parte ci sono i braccianti che sono sicuramente spaventati, dall’altra anche i cittadini, perché non posso credere che sei stato l’unico a chiederti che cosa stava succedendo così alla luce del giorno. Pensando anche alla legge contro il caporalato (l. 199/2016) e alle successive indagini e arresti, vorrei chiederti se secondo te questa è veramente servita e se hai notato cambiamenti
L’omertà è particolare… parlerei più di complicità: la gente vedeva, sapeva dell’esistenza di questa comunità impiegata nelle campagne come braccianti, magari non in modo così approfondito, ma non si prendevano cura di questo tema e di questi ragazzi. La provincia di Latina è prevalentemente agricola, ancora è l’economia prevalente. E’ chiaro che nel momento in cui scopri questa pentola sei chiamato a prendere posizione e quindi, stare dalla parte dei padroni o dei lavoratori. I braccianti sicuramente all’inizio erano silenti, in primo luogo perché non conoscevano le dinamiche dello sfruttamento, avevano consapevolezza di essere maltrattati ma non che quello fosse sfruttamento nelle forme ora note e denunciate e non avevano cognizione di cosa fosse il caporalato. Oggi, molto più della nostra comunità, la comunità indiana fa denunce, parla con le forze dell’ordine, sindacati, parla più facilmente con i giornalisti; quel silenzio che prima in qualche modo era condizione fondamentale per lo sfruttamento oggi invece è stato rotto e questo è dovuto ad alcune operazioni che abbiamo messo in atto: lo sciopero, gli articoli e le inchieste sui giornali, addirittura pubblicati in Punjab, documentari e film. Senza alcun dubbio la comunità indiana non è una comunità omertosa. Non è un caso se la maggior parte degli arresti in Italia per il reato di caporalato sono stati compiuti proprio in provincia di Latina. La legge 199/2016 nasce anche grazie allo sciopero del 18 aprile 2016 e a un gioco fondamentale della stampa, soprattutto di alcuni giornalisti che hanno preso a cuore il tema, lo hanno indagato e lo hanno portato all’attenzione del Ministero delle Politiche Agricole e dell’opinione pubblica. A questo lavoro devo aggiungere per onestà il lavoro importantissimo dell’On. Davide Mattiello che ci ha supportato e sostenuto sia accogliendo le nostre tesi che dandoci coperture politiche molto importanti. Lo stesso vale per l’On. Fabbri, presidente della Commissione d’Inchiesta sugli infortuni sul lavoro, capace di azioni politiche e operative fondamentali contro lo sfruttamento. La 199 è una legge, come tale, imperfetta, che presenta però degli elementi di grande novità, per esempio adotta gli elementi cardine della legislazione antimafia, perché riconosce la responsabilità penale del padrone. Prima invece forse andava in carcere solo il caporale. In secondo luogo, c’è l’istituto del sequestro e della confisca dei beni utilizzati per lo sfruttamento lavorativo, quindi anche eventualmente l’azienda a cui si applica l’istituto del controllo giudiziario. Aspetti centrali che sono serviti per incidere su questo sistema che è ancora presente, è ancora forte e ancora organizzato al suo interno con la presenza di soggetti criminali, ma rispetto a due anni fa siamo molto più avanti.

In “Quinta Mafia” (libro pubblicato da Radici Future nel 2016) spieghi che già negli anni Ottanta nell’Agro Pontino era presente lo sfruttamento lavorativo in aziende mafiose, da parte di mafie italiane e straniere, eppure ad oggi a me non sembra che ci sia una sufficiente partecipazione statale per parlare di giustizia. Siamo ancora lontani, quindi ti chiedo se vedi la possibilità che in un futuro cambi veramente qualcosa
La possibilità che cambi qualcosa c’è sempre. A prescindere dal ruolo della politica, dell’economia, della mafia, sono convinto che il futuro dipenda dai passi che noi compiamo ogni giorno e dalla direzione del nostro impegno. Se le mafie sono ancora presenti e forti, nel pontino e altrove, è perché ancora non si è costituita quell’alleanza civile e politica fondamentale, onesta e trasparente, una sorta di “filiera trasparente della legalità” che dovrebbe permettere la repressione e il superamento di questo genere di fenomeno. Se penso che dieci anni fa, quando ho cominciato ad occuparmi di agromafie, di questo tema non se ne parlava, della comunità sikh non si aveva neanche consapevolezza, mentre oggi parliamo di una comunità molto più emancipata che è arrivata addirittura a organizzare uno sciopero e a denunciare. Come cooperativa ‘In Migrazione’ nel corso dell’ultimo anno e mezzo abbiamo presentato più di cento denunce contro caporali e imprenditori per sfruttamento lavorativo, caporalato e vertenze di lavoro, grazie soprattutto ad un avvocato che ci è venuto in soccorso (avv. Diego Maria Santoro). Questo dà la dimensione di un cambiamento e un’evoluzione straordinaria. Sul futuro quindi per me c’è speranza. Ti dico due elementi critici che mi sento di denunciare: abbiamo una condizione drammatica per quanto riguarda la giustizia penale e lavorativa, soprattutto in provincia di Latina. I ragazzi, i braccianti, hanno iniziato a denunciare, un po’ come le vittime di mafia, ma lo Stato è inefficiente e questi suoi ritardi e incapacità si riverberano sulla condizione di queste persone in maniera diretta, finiscono di fatto con il tutelare il prepotente, il mafioso, l’arrogante, esponendo questi ragazzi a un’ulteriore fragilità. Ci sono ragazzi che hanno denunciato con noi, braccianti indiani impiegati per 2,50 euro/l’ora per 14h al giorno dentro la stessa cooperativa agricola nel pontino ma sono passati cinque anni e ancora si deve tenere la prima udienza presso il Tribunale di Latina. Allora, quando impieghi cinque anni soltanto per tenere un’udienza in tribunale, su un caso come questo, significa che finisci col fare “un favore” alle mafie e non le combatti. Questo è un tema fondamentale. L’altro tema è la grave latitanza della politica. Da dopo lo sciopero dell’aprile 2016 non sono stati più emanati bandi a scopo di contrasto del grave sfruttamento lavorativo, né europei né regionali. Il che significa che quella grande “onda anomala” che si era costituita non ha trovato poi riscontro nell’organizzazione reali di corsi, di progetti, forme di educazione alla legalità. I bandi non ci sono stati, li redige la politica che in questo senso ha dato secondo me un messaggio molto chiaro: va bene lo sciopero ma deve durare un giorno, non devono essere messi in campo processi di emancipazione perché questo produce uno sconvolgimento di un piano politico, sociale ed economico che invece è funzionale a quella stessa politica. Questo è molto grave>>.

Non ci sono solo gli indiani, perché già da qualche tempo stanno impiegando anche africani e donne, con la scusa di pagarli meno e farli lavorare di più
Questo è un punto che a me è molto caro. Lo abbiamo denunciato come ‘In Migrazione’ con due inchieste: una su Avvenire a firma di Toni Mira e una su L’Espresso a firma di Floriana Bulfon. Lo abbiamo denunciato nuovamente di recente con una conferenza stampa alla Camera dei Deputati organizzata da ‘Possibile’ che ci ha dato ospitalità, dove abbiamo per l’appunto dimostrato e raccontato come una delle risposte al sistema agromafioso o padronale è stata quella, in alcuni casi, di sostituire i braccianti indiani considerati ora ribelli e sindacalizzati, con richiedenti asilo soprattutto subsahariani impiegandoli nella raccolta per 14h al giorno e una retribuzione giornaliera di 10 euro, con furgoncini di caporali che arrivavano sin dentro i centri di accoglienza, prendevano questi ragazzi per portarli nei campi limitrofi. Anche in questo caso ci sono speculatrici che cercano di appropriarsi di questo lavoro e per questo stiamo pensando a denunce molto puntuali, anche solo per evitare che si intossichi il percorso compiuto con affermazioni strampalate, ossia con quello che Don Ciotti definisce “sapere di seconda mano”. Questa comunque è l’espressione di una saldatura drammaticamente attuale e violenta tra un pezzo del sistema di accoglienza italiano, il peggiore, e del caporalato. Quando questi due sistemi si toccano e si sposano, il sistema in sé delle agromafie fa un passo in avanti perché si rafforza e trova nuove alleanze e nuovi campi nei quali penetrare.

Ho sempre il dubbio che la riforma della giustizia dovrebbe essere totale. Come dicevi prima, se ci vogliono cinque anni per fare un processo, perché qualcuno si dovrebbe prendere la briga di denunciare? Ho saputo che anche tu hai avuto varie intimidazioni per questo motivo
Se io mi trovassi – come mi sono trovato – nelle condizioni di dover denunciare perché ho subito un torto, una intimidazione, una minaccia, comunque denuncerei anche se il sistema non funziona. Questo è il primo aspetto. Denunciare significa chiamare a una responsabilità lo Stato. In provincia di Latina ci cono i processi aperti e in alcuni di questi i lavoratori indiani si sono costituiti parte civile come la cooperativa ‘In Migrazione’. Non è cosa da poco. Lo Stato non funziona e questa è un’altra battaglia da fare, non solo perché in generale chi viene sfruttato possa uscire da questa condizione, ma anche perché lo Stato lavori bene in maniera adeguata contro mafie e corruzione. E’ chiaro che laddove questo non è possibile, noi paghiamo uno scotto enorme. Quel ragazzo, di cui vi ho parlato prima, dopo una settimana dalla sua denuncia è stato intimidito da una squadraccia di ragazzi alle dipendenze del suo ex datore di lavoro. Come In Migrazione lo abbiamo portato a lavorare in un’altra azienda fuori provincia dove adesso lavora con un regolare contratto. Questo processo è frutto del nostro lavoro, delle nostre competenze, relazioni e attenzioni, non è il frutto di un percorso pubblico stabilito dallo Stato. Per me comunque vale la pena intraprendere sempre una battaglia con lo Stato, o almeno coi “pezzi migliori dello Stato” perché la risposta pubblica è fondamentale, altrimenti diamo il via libera a reazioni di pancia che possono portare alla giustizia fai-da-te e, in questo genere di fenomeni, è molto pericoloso perché lascia a terra, sempre, delle vittime. Dopo lo sciopero alcuni padroni hanno tirato fuori i fucili. Insieme ai lavoratori indiani, noi abbiamo avviato da tempo un percorso fondato sulla denuncia e non sulla violenza. Se quei fucili non hanno sparato, è perché i lavoratori indiani avevano recepito questo elemento: dinnanzi alla tua violenza, io mi difendo ma non ti offendo, e questo li ha portati spesso a salvarsi la vita. Lo Stato perciò va criticato quando non funziona, ma va chiamato in causa e richiamato ai suoi doveri anche quando è latitante o incapace di adempiere agli stessi.

Allora, io ho finito, quindi se vuoi aggiungere altro hai carta bianca
Ci sono degli aspetti che secondo me meritano di essere affrontati. Il primo aspetto riguarda  una particolare incidenza che registro, in prima persona, da parte delle mafie nell’inserirsi in settori nuovi dell’economia, anche pontina, per esempio quella vivaistica. Il vivaismo è uno dei nuovi settori che a noi sembra particolarmente appetito dalle mafie, quale grande occasione di riciclare denaro, per acquistare territorio e allargarsi su di esso, per stringere alleanze anche di natura politica. Questo è un aspetto di novità che è importante riconoscere e denunciare, così come iniziamo a rilevare, tornando alla questione dello sfruttamento, forme di sfruttamento tradizionale e di reclutamento anche notturno dei braccianti indiani, soprattutto a Terracina, ad opera di trafficanti pachistani o bangladesi. Parliamo di centinaia di lavoratori che vengono reclutati nelle piazze, esattamente come a Foggia o Rosarno, da caporali e trafficanti asiatici in generale e portati direttamente all’interno delle aziende agricole o vivaistiche locali. Questo evidenzia un rapporto diretto tra alcune aziende e i caporali. Io ho già denunciato con una pubblicazione, “Mafie stranire in Italia”, l’organizzazione di una proto-mafia indo-Pontina o Punjab-Pontina, cioè un’alleanza tra criminali italiani e criminali Punjab allo scopo del reclutamento internazionale, quindi della tratta di esseri umani, dello sfruttamento lavorativo e da una serie di altre gravi attività collaterali. Ora si stanno organizzando delle squadre di indiani, soprattutto alle dipendenze di criminali indiani, inviate da questi a coloro i quali sono considerati più ribelli, che non pagano ad esempio forme di prestiti ad usura o che parlano con sindacalisti, esponendosi. I caporali inviano queste squadre “punitive”, formate da 30-40 ragazzi indiani con le armi in pugno, con lo scopo di rimettere in riga questi cosiddetti ribelli tramite minacce o proprio con l’invio di questi picchiatori.

Come anticipato, c’è anche il problema grave di una giustizia che spesso non è giusta, perché non si tratta solo di arrestare persone ma si tratta anche di far partire processi, di arrivare a sentenze di condanna, e di rendere esecutiva la sentenza, pena altrimenti una sorta di impunità di fatto che agevola le mafie e le agromafie. Continuiamo a registrare nel sud pontino la presenza di mafiosi di primissimo livello che fanno del sud pontino il luogo della loro residenza come anche dei loro affari. Mi preme sottolineare inoltre il fatto che esiste un livello superiore, non esclusivamente mafioso, ma mafio-politico, in provincia di Latina, che non è stato ancora adeguatamente colpito. Esistono mafie, ad esempio come il clan Ciarelli-Di Silvio che è stato duramente colpito con importanti inchieste giudiziarie, ma esistono ancora i referenti di un livello superiore che ha consentito al clan di espandersi e ottenere vantaggi enormi, di penetrare nel mondo del calcio come la ex società Latina Calcio, nonché nel mondo della droga, del racket e del controllo mafioso del territorio. Questo livello superiore in mano ad alcuni politici non è stato ancora colpito. Stiamo rischiando di vanificare il lavoro di analisi, indagine e denuncia svolto negli anni passati. Se non colpiamo quel livello superiore di politici che andavano a braccetto con gli esponenti dei clan, rischiamo di colpire i tentacoli di questa piovra ma non la testa pensante.

Se vuoi fare nomi e cognomi dei mafiosi, qui la responsabilità è condivisa
Li ho fatti spesso, insieme al mio collega Roberto Lessio, e su questo ho pagato, sono stato tre anni fuori dalla mia provincia proprio per le mie denunce e inchieste. Del clan Ciarelli-Di Silvio prima non se ne parlava, oggi invece se ne parla come di un clan mafioso, ma il punto è che se non arriviamo a quel secondo livello, quello politico che abbraccia gran parte della destra che ha governato nella provincia di Latina e a Latina per molti anni, non andiamo da nessuna parte.


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