Cannes 2018: Cate Blanchett presidente di giuria

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Che alla più originale artista contemporanea, cinematografica e teatrale, alla sua forza evocativa e analitica e al coraggio delle sue scelte professionali – spesso spiazzanti, provocatorie e visionarie -, sia stata offerta la presidenza della giuria del Festival di Cannes 2018 è una notizia che fa onore alla direzione del festival e assume la forma di un omaggio inaspettato alla parte migliore e più etica del cinema attuale.

Utilizzo deliberatamente il termine “artista”, anziché “attrice”, per rimarcare una precisa caratteristica di Cate Blanchett, ossia quella di inverare il processo creativo da cui scaturisce un’opera, intervenendo in ogni suo momento a ravvivarlo della propria vita (1).

Non si contano le interpretazioni geniali di Mrs. Blanchett, da Elizabeth – The Golden Age a The Gift, da The missing a Babel, da An ideal husband a Notes on a scandal, da I’m not there a Truth. Ma, a nostro parere, sono tre quelle indimenticabili: Blue Jasmine, Carol e i tredici personaggi di Manifesto.

Nel film di Woody Allen, Jasmine, sposata con un fascinoso e spietato speculatore finanziario, preferisce glissare elegantemente sull’origine delle loro ricchezze, dedicandosi a coltivare la propria perfezione (estetica, culturale, mondana), nonché a numerose opere di beneficenza. Sarà lei, in un temporaneo ottenebramento del raziocinio scatenato dai continui tradimenti del marito, a provocarne la rovina economica e l’arresto (cui seguirà il suicidio in carcere per cruenta impiccagione). Solo che l’indagine, una volta avviata, produce il distacco, e il conseguente precipitare di giorno in giorno più rapido e violento, dei materiali (fino a quel momento apparsi così compatti, saldi, inattaccabili) che sostenevano l’esistenza e l’essenza stessa di Jasmine, fino a ridurla a un piccolo impotente sasso “abbandonato all’impeto di rumorosa frana”. Ormai indigente (benché orgogliosa), depressa, ansiosa, oltraggiata dall’elettroshock, dipendente da massicce dosi di vòdka e xanax, insofferente a lavori umili che la costringono a osservare quotidianamente le vecchie amiche (o ex amiche) da una posizione subalterna, Jasmine decide di trasferirsi da New York a San Francisco, città in cui vive la sorella Ginger, in passato trascurata e tenuta a cortese distanza per via del ceto sociale decisamente inferiore e dei gusti e comportamenti poco consoni alle sofisticate sfumature newyorkesi (cui tuttavia lo speculatore rampante non aveva esitato a far perdere una somma ingente di denaro con la prospettiva di favolosi guadagni). Ginger nutre sottili, venefici rancori nei confronti della sorella dai geni perfetti e dalla vita privilegiata, che affiorano in superficie assumendo la forma di un acido, petulante farisaismo, cui discendono frasi di meschino buon senso da minus-habens, accuse di squilibrio mentale, tentativi di normalizzazione e ridimensionamento dell’antagonista. Jasmine mal sopporta il deserto spirituale della sorella, i suoi amanti subumani, i suoi attoniti bambini, il dentista egolatra e lubrico al quale fa da impaziente segretaria per un breve periodo, la casa angusta, stipata di suppellettili nella quale è costretta a vivere (e gli interni, come succede spesso nelle storie di Allen, diventano protagonisti essenziali, rivelatori: la casa vissuta come turris eburnea disconnessa dalla volgarità delle piccole cose, o come gabbia arrugginita, soffocante eppure familiare – disdegnata e amata proprio per questo –, in entrambi i casi contrapposta al mondo, utilizzata come abito, come maschera, come corazza attraente o ripugnante, come specchio, come rappresentazione di un’identità costruita con cura o con casualità apparente – come Caso solo subito, anziché assemblato tassello dopo tassello – eppure assolutamente vera). Dopo il fallimento della relazione con un uomo bello, facoltoso e animato da velleità politiche (nonché assai fatuo e calcolatore), provocato dal desiderio di vendetta dell’ex marito di Ginger per la truffa subita, l’orizzonte di Jasmine si chiude in modo definitivo. Nella sequenza finale la vediamo, numinosa e derelitta, seduta su una panchina, i capelli bagnati dopo una doccia interrotta, avvitarsi in un soliloquio caotico, continuamente ripreso, mentre una signora dall’espressione ottusa e sospettosa piega il giornale che sta leggendo e con cautela si alza per allontanarsi. L’asciutto apologo di Woody Allen (un entomologo colmo di pìetas, lucidamente turbato dalla natura umana, così fragile e imperfetta, esposta ai rovesci dell’esistenza), interpretato da una Cate Blanchett di sbalorditiva grandezza, ci racconta, raggiungendo quasi i vertici di “Match point”, molte cose di noi: l’opportunismo, la vulnerabilità, la sostanziale impermeabilità alle ragioni degli altri, l’incapacità di accogliere e mettersi in ascolto di ciò che reputiamo in qualche modo perturbante, strano (estraneo), disadattato, diverso.

 

In “Carol” Todd Haynes, filologo supremo dell’immagine, trova la compiutezza stilistica esemplare unendo al consueto, e mai gratuito, esercizio calligrafico una visione metafisica che discende “per li (nobili) rami” dal trascendentalismo bostoniano, movimento filosofico e letterario fondato da Emerson, Thoreau (“devi vivere nel presente, tuffarti in ogni onda, trovare la tua eternità in ciascun momento”) e altri. E, fra parentesi, a questa tendenza poetica, in particolare al concetto di “over-soul” che spinge gli individui a superare i propri limiti interiori, può essere ascritto senza troppe forzature anche il romanzo, inquieto ed eversivo, di Patricia Highsmith. Ne risulta un film sullo sguardo, sulla sua natura e densità, sul senso che instilla e trae, nello stesso istante, nel e dal mondo e le cose, per mezzo di un ininterrotto processo di trasfigurazione. Lo sguardo di Therese Belivet su Carol Aird, amplificato sovente dall’obiettivo di una macchina fotografica che, raccogliendo e concentrando la luce del soggetto, cattura di Carol l’essenza segreta di divinità prigioniera dagli occhi di lince. Lo sguardo di Carol ‘dentro’ Therese, sciame di vibrazioni quantistiche dalla forza ipnotica, in grado di irradiare ogni zona circostante (tavolo di un ristorante, salotto, camera, e qualunque esterno). Va detto, non a margine, che senza l’interpretazione di Cate Blanchett, al limite delle possibilità umane, questo film non esisterebbe, o si presenterebbe molto diverso; l’urto emotivo che produce non sarebbe così intenso e duraturo. Entro l’eleganza opprimente del conformismo anni ’50, la vita di Therese procede con difficoltà, con le ruote bloccate si direbbe. Il rapporto con il quasi fidanzato Richard appare controverso, solcato di dubbi, insoddisfacente: una bolla di vetro soffocante attraverso la quale la ragazza vede i propri desideri, senza in realtà poterli toccare. Si ha la sensazione che Therese (davvero impressionante, per profondità e asciuttezza quasi minimalista, l’analisi interiore sviluppata da Rooney Mara) viva con la fronte angosciosamente appoggiata alla superficie interna del vetro, guardando fuori in attesa di qualcosa. O qualcuno. Qualcuno arriva nei grandi magazzini Frankenberg, dove Therese lavora come commessa, due giorni prima di Natale per acquistare una bambola da regalare alla figlia. E’ Carol, signora assai glamour e wasp (capelli biondi, occhi chiari animati da una luce viva, indefinibile), appartenente alla high society newyorchese e prossima al divorzio. Un flusso di atomi e ioni comincia a formarsi entro fili di impercettibile sostanza, sospesi nell’aria fra l’una e l’altra (“un fuoco leggero sotto la pelle mi corre”). Rallenta, sembra interrompersi tanto si allunga, riprende, accelera, si quieta. Vibra nella sua tenace fragilità, crea tenui fasci luminosi, rifrange o cancella i suoni. Carol si allontana dal banco battendo i guanti sul palmo di una mano, si ferma, torna a parlare con Therese, sceglie un altro oggetto, lascia l’indirizzo per la consegna a domicilio. Nei giorni successivi uno scambio di biglietti e telefonate prepara il primo di molti incontri. La conoscenza reciproca progredisce fra mille cautele, ciascuna delle due lascia piccole tracce di sé e nello stesso tempo elude l’indagine dell’altra, si confida e si ritrae. Un amore fra donne era considerato devianza ctonia, malattia, alimentando sensi di colpa e inadeguatezza e facendosi troppo di frequente anelito rimosso. Come lo stesso Haynes ha raccontato anni fa in “Lontano dal Paradiso”, il controllo sociale era rigidissimo e, fra “clausole di moralità”, accentuata misoginia e leggi di ascendenza puritana, si poteva soccombere agli orrori della psichiatria rieducativa con facilità estrema. I sentimenti, il desiderio crescente, sono costantemente presenti ma pronti a slittare altrove. I movimenti interiori di Carol e Therese, appena accennati, circospetti, controllati, ellittici, nei quali si intrecciano suggestione e omissione, ricordano le antenne d’insetto mentre sondano gli spazi aperti, colmi di oggetti sconosciuti e sorprendenti, possibili insidie, delusioni, rivelazioni decisive. Solo durante un viaggio, nella camera di un motel di Waterloo, nello Stato dell’Iowa, quando l’alba è ancora un quadrato biancastro oltre i vetri della finestra, Carol guiderà Therese in un’immersione iniziatica. Perché il vento stellare composto di particelle elementari e neutrini può abitare anche una piovosa cittadina del Midwest persa ‘fra il nulla e l’addio’, non-luogo situato in mezzo alla desolazione di pianure illimitate. I sensi della ragazza si aprono come ninfee bianche nell’acqua, e aprendosi si disfano in luce liquida e increspata che aumenta di intensità allargandosi in cerchi concentrici. Questa luce diventa freccia che si eleva in altra luce cilestrina, come appena nata, senza potersi fermare, senza poter allentare la terrificante tensione ed ebbrezza della salita e dell’incontrollato rapimento. Ricade infine sulla terra tremando con violenza, bagnata di rifrazioni e trasfigurata, ancora aggrappata a Carol, ritrovando negli occhi azzurri e nella bocca della donna (e nelle parole che le arrivano in sussurri “angelo mio, venuto dallo spazio”) la stessa calma accogliente di quella luce metafisica e carnale attraversata per un istante infinito.

Considerata la complessità del progetto da cui trae origine “Manifesto”, opera che segna un modo diverso di fare cinema e che sarebbe riduttivo, addirittura offensivo, definire “film”,  si rimane stupiti dalla grazia – a tratti, dal divertimento – che riescono a raggiungere e comunicare Julian Rosefeldt e Cate Blanchett (coautrice a tutti gli effetti, visto che senza la potenza della sua arte, l’impeto shakespeariano, la sottigliezza di indagine che dispiega nel dare forma ai vari caratteri, l’esperimento probabilmente sarebbe fallito). Non c’è traccia di psicologismo nelle sue interpretazioni; Cate Blanchett letteralmente diventa una situazione, un sillogismo ellittico, un topos capace di rappresentare in pochi minuti una tipologia artistica, sociale, umana. E’, crediamo, l’unica attrice epica del nostro tempo. Epica e spietata nel sezionare le parole d’ordine degli innumerevoli manifesti artistici che si sono avvicendati nel Novecento, come nel mostrare con asciuttezza (talvolta con un controllatissimo dolore) la deriva atona che hanno progressivamente subito dignità e identità umane negli ultimi decenni.

Manifesto nasce nel 2015 in Australia come videoinstallazione composta da 13 piccoli film proiettati su altrettanti schermi, e successivamente esposta, tra il 2016 e il 2017, all’Hamburger Bahnhof Museum fur Gegenwart di Berlino e al Park Avenue Armony di New York. Grazie a Cate Blanchett l’idea di Rosefeldt ha assunto una compiutezza definitiva, diventando un film che, dopo il successo clamoroso della “prima” al Sundance Festival di quest’anno, sarà distribuito in Italia il prossimo autunno per I Wonder Pictures. Rosefeldt sceglie spesso lente panoramiche dall’alto e riprese frontali. Nel primo caso per mostrare con maggiore efficacia la desolazione e la dismissione di intere aree periferiche delle città (in particolare Berlino), per farci sentire parte di quell’abbandono irredimibile, dell’incuria post-capitalista il cui vivissimo cadavere putrefacendosi contamina il globo intero. Dopo aver millantato per due secoli il potere di cambiare le sorti del mondo e delle comunità che lo abitano, dopo aver magnificato il feticcio del progresso e, partendo dalla Rivoluzione Industriale, nutrito il proprio organismo vorace e ipertrofico con la morte per lavoro e denutrizione di donne e bambini, dopo aver distrutto vaste zone di territorio con fabbriche inquinanti e quartieri dormitorio giustificando tutto con l’espansione del benessere di  massa, se n’è andato. Semplicemente il Capitale se n’è andato, avendo scoperto che le speculazioni finanziarie sono immensamente più proficue della costruzione di oggetti. Si è smaterializzato, portando alla proliferazione degenerativa, entropica, tutto ciò che aveva edificato, e il materiale umano che a questo fine era stato illuso e reclutato. Nel secondo caso, per lasciare C. Blanchett libera di sviluppare la sua caustica notomia mimetica.

Risulta impressionante e indimenticabile il suo burbero, pencolante homeless, piagato e barbuto, mentre si aggira provocatorio e trasognato fra le rovine della modernità. Inveisce rauco contro borghesi e meschini, ruggendo in un megafono il Manifesto bianco di Lucio Fontana. Considerata la complessità del progetto da cui trae origine “Manifesto”, opera che segna un modo diverso di fare cinema e che sarebbe riduttivo, addirittura offensivo, definire “film”,  si rimane stupiti dalla grazia – a tratti, dal divertimento – che riescono a raggiungere e comunicare Julian Rosefeldt e Cate Blanchett (coautrice a tutti gli effetti, visto che senza la potenza della sua arte, l’impeto shakespeariano, la sottigliezza di indagine che dispiega nel dare forma ai vari caratteri, l’esperimento probabilmente sarebbe fallito). Non c’è traccia di psicologismo nelle sue interpretazioni; Cate Blanchett letteralmente diventa una situazione, un sillogismo ellittico, un topos capace di rappresentare in pochi minuti una tipologia artistica, sociale, umana. E’, crediamo, l’unica attrice epica del nostro tempo. Epica e spietata nel sezionare le parole d’ordine degli innumerevoli manifesti artistici che si sono avvicendati nel Novecento, come nel mostrare con asciuttezza (talvolta con un controllatissimo dolore) la deriva atona che hanno progressivamente subito dignità e identità umane negli ultimi decenni.

Manifesto nasce nel 2015 in Australia come videoinstallazione composta da 13 piccoli film proiettati su altrettanti schermi, e successivamente esposta, tra il 2016 e il 2017, all’Hamburger Bahnhof Museum fur Gegenwart di Berlino e al Park Avenue Armony di New York. Grazie a Cate Blanchett l’idea di Rosefeldt ha assunto una compiutezza definitiva, diventando un film che, dopo il successo clamoroso della “prima” al Sundance Festival di quest’anno, sarà distribuito in Italia il prossimo autunno per I Wonder Pictures. Rosefeldt sceglie spesso lente panoramiche dall’alto e riprese frontali. Nel primo caso per mostrare con maggiore efficacia la desolazione e la dismissione di intere aree periferiche delle città (in particolare Berlino), per farci sentire parte di quell’abbandono irredimibile, dell’incuria post-capitalista il cui vivissimo cadavere putrefacendosi contamina il globo intero. Dopo aver millantato per due secoli il potere di cambiare le sorti del mondo e delle comunità che lo abitano, dopo aver magnificato il feticcio del progresso e, partendo dalla Rivoluzione Industriale, nutrito il proprio organismo vorace e ipertrofico con la morte per lavoro e denutrizione di donne e bambini, dopo aver distrutto vaste zone di territorio con fabbriche inquinanti e quartieri dormitorio giustificando tutto con l’espansione del benessere di  massa, se n’è andato. Semplicemente il Capitale se n’è andato, avendo scoperto che le speculazioni finanziarie sono immensamente più proficue della costruzione di oggetti. Si è smaterializzato, portando alla proliferazione degenerativa, entropica, tutto ciò che aveva edificato, e il materiale umano che a questo fine era stato illuso e reclutato. Nel secondo caso, per lasciare C. Blanchett libera di sviluppare la sua caustica notomia mimetica.

Inveisce rauco contro borghesi e meschini, ruggendo in un megafono il Manifesto bianco di Lucio Fontana. Geniale e articolata la disamina dell’arte concettuale tutta giocata sopra le righe, fra comunicazione di massa e iperfinzione televisiva. In questo episodio la volitiva e laccatissima conduttrice di un network intervista (sull’arte concettuale, appunto) un’inviata esterna, che è il suo doppio o la sua proiezione (vista l’infinita riproducibilità di un’immagine). La Cate che parla fuori studio, irrorata da una pioggia battente creata con espedienti tecnologici per aumentare l’effetto di coinvolgimento del pubblico, enumera alla Cate in studio le minute ramificazioni dell’arte concettuale. La conduttrice appare colpita soprattutto dalla mini-arte: si tratterà di opere molto piccole o di autori bassi di statura? Si chiede autoritaria rivolgendosi all’obiettivo. Il quadro più inquietante è forse quello in cui una Maestra elementare sottilmente minacciosa spiega a una classe di piccini assai perplessi il Dogma di Von Trier. La fissità assertiva, inflessibile, apodittica dello sguardo ci fa scivolare sotto la pelle un senso di pericolo incombente. Pur animati dalle migliori intenzioni (di cui è lastricata la via dell’Inferno) e tendenti a enucleare la Verità nascosta nelle Cose – non pensavamo ce ne fosse soltanto una –, i dogmi, con le norme rigide e tiranniche che li accompagnano, dovrebbero sempre metterci in allarme. L’unica nicchia di resistenza sembrano i sogni, visto che esistenza e morte sono due soluzioni immaginarie. La vera rivoluzione potrebbe davvero essere conciliare il sogno con il mondo diurno, in una surrealtà che ci faccia intravedere il lato nascosto di ciò che appare. E l’arte, in fondo, la sua essenza e il suo scopo, dopo tante parole, viene meglio rappresentata da alcune vecchiette che fanno gioiosamente esplodere dei fuochi d’artificio in un prato suburbano spelacchiato.

(1) G. Gentile


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