L’America latina di fronte al 2018

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Il Messico è il paese che accumula le maggiori incognite in un’America Latina che fino a non molti anni fa poteva vantare la rinascita delle istituzioni democratiche (non ovunque della democrazia, concetto più ampio e complesso) e una straordinaria crescita economica (non necessariamente uno sviluppo, concetto più ampio e complesso) alimentata da un fecondo decennio di export, in massima parte di materie prime minerarie e alimentari. Questi sono i tratti comuni a gran parte dei 21 paesi dal rio Grande del Norte allo stretto di Magellano, che per il resto fanno ciascuno storia a sé. Ma tutti affrontano un consuntivo dell’anno concluso e un preventivo del 2018 carichi di difficoltà: società ferite da contrasti profondi, governi che operano nel mezzo di scontri talvolta sanguinosi.

A eccezione del Venezuela, trattenuto in un’emergenza sempre più drammatica dal governo autoritario di Nicolàs Maduro, l’erede del comandante Chavez; dell’Equador e della Bolivia, quest’ultime presiedute ancora da governi di centro-sinistra a determinante partecipazione indigena, a dirigere gli altri paesi sono subentrati presidenti ed esecutivi di centro-destra. Ultimo in ordine di tempo, il Cile, le cui elezioni sono state vinte dall’imprenditore miliardario Sebastian Piñera. Un altro imprenditore miliardario governa l’Argentina, Mauricio Macri, di origine italiana; mentre in Perù, in Colombia, in Brasile, in Messico, la grande impresa bancaria e industriale accetta ancora l’intermediazione della politica tradizionale.

Quasi ovunque le politiche di austerità imposte dal forte rallentamento dei commerci internazionali e dai conseguenti deficit di bilancio, hanno favorito l’ulteriore concentrazione dei gruppi economici più potenti e accresciuto la loro influenza sui mezzi di comunicazione, pubblicazioni cartacee e on-line, radio-televisione. L’accelerazione delle vaste trasformazioni in atto a livello globale nei sistemi di produzione si riflettono sui comportamenti di massa, accrescono perciò l’importanza dell’informazione capace di orientarli. Quello dei giornalisti diventa così un lavoro tanto fondamentale per la società civile latinoamericana, quanto sempre più precario, mal retribuito e pericoloso. I governi lo guardano con scarsa simpatia, gli interessi occulti come un nemico da eliminare il prima possibile.

In Messico questa congiuntura incrocia inoltre gli interessi dei potenti cartelli della droga e sfocia in raccapricciante tragedia, immane e nondimeno scarsamente conosciuta. Trentanove operatori dell’informazione assassinati negli ultimi quattro anni, quindici nel solo 2017. Di questi ultimi almeno quattro sono stati fatti saltare in aria con la loro auto in pieno giorno e spesso in affollati centri urbani, per pubblicizzare al massimo l’estrema punizione inflitta e gonfiare l’effetto terroristico. Accade tuttavia con frequenza, che i sicari dei capi narcos sequestrino il cronista dei loro crimini e prima di ucciderlo lo torturino facendone infine scomparire il corpo nelle fiamme. In alcuni casi sono giunti a registrare in un video il tormento imposto alla vittima e lo hanno fatto recapitare alla famiglia.

Denunciate vent’anni fa con un colpo clamoroso nel Chiapas del Subcomandante Marcos che fece dell’informazione un’arma di precisione, le arretratezze sociali e umane del Messico appaiono oggi soffocate dalla carneficina quotidiana operata dai narcotrafficanti in almeno metà del grande paese, seconda potenza industriale del Latinoamerica. E quand’anche fosse solo frutto del caso, non è comunque privo di significato che l’altro gigante industrializzato, il primo, il Brasile, sia anch’esso percorso e dilaniato dal narcotraffico, che ne ha occupato stabilmente le favelas delle sue maggiori città. Gli scontri armati tra le bande narcos e la polizia militare spesso appoggiata dall’esercito sono più che frequenti in centri urbani famosi come Rio e Sam Paulo, con decine di milioni di abitanti.

Assai meno estese e cruente, ma tutt’altro che irrilevanti, corpose controversie sociali talvolta intrecciate a rivendicazioni etniche dei popoli originari (come un’aggiornata nominalistica chiama ora gli indios sudamericani), percorrono e inquietano quasi tutti i paesi del subcontinente. Si è arrestato un processo d’integrazione che malgrado limiti e contraddizioni aveva determinato notevoli progressi, sia sociali sia economici. Fino a costituire una significativa base di crescita per i mercati della regione. L’inflazione che -certo- non aveva mai cessato di fare capolino, da un paio d‘anni è tornata una pesante minaccia in paesi come Argentina e Brasile. La corruzione contribuisce a logorare bilanci e speranze di rinnovamento. Ma politiche di contenimento quando non di aperto contrasto alle conquiste civili e del lavoro stanno inasprendo tutti i conflitti.


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