Francesco Rosi: i 199 giorni del Che

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Carolina Rosi, con la complicità e la cura affettuosa di Maria Procino, esperta di archivi, propone per Rizzoli “I 199 giorni del Che” a firma di suo padre Francesco: “Diario di un film sulle tracce del Rivoluzionario” (248 pagg. 19 €).  Sono pagine di appunti attraverso le quali è possibile ripercorrere il tenace tentativo del regista napoletano di narrare in un film la morte violenta di Ernesto Che Guevara e il suo progetto visionario di espandere la rivoluzione cubana dalla Bolivia all’intera America Latina. Un’utopia che in quegli anni infiammò gli animi di molti rivoluzionari nostrani in giacca da camera, intellettuali marxisti che sotto le insegne della falce e del martello o del sole che sorge socialista, inneggiavano a Fidel Castro e vedevano nel Lider Maximo il  cavallo di Troia capace di colpire al cuore il capitalismo americano e sconfiggere l’egemonia imperialista. Rosi, nel suo fervore di cineasta impegnato, era restato affascinato dalla figura romantica e sfortunata del Che, assunta in tutto il mondo a bandiera degli oppressi e sfruttati della Terra al punto da diventare un’icona senza tempo: il suo volto maschio da impavido guerrigliero continua a campeggiare sulle T-shirt dei teenager del Terzo Millennio i quali spesso non ne conoscono neppure la storia e credono che si tratti di una rock star.

Il personaggio rivestiva senza dubbio caratteristiche di forte attrazione cinematografica, specialmente in una stagione in cui i film a connotazione politica godevano di un diffuso favore. Era il genere in cui Rosi veniva considerato un maestro; non soltanto per la sua coraggiosa denuncia in “Le Mani sulla città”degli intrecci tra amministrazione pubblica e malaffare a Napoli; ma prima ancora come autore di “Salvatore Giuliano” il film verità sull’uccisione del bandito più celebre del dopoguerra, incastrato da loschi giochi di potere e liquidato con una fine ingloriosa legata al tragico eccidio di Portella della Ginestra.  Un film epico, doloroso, controverso, ricolmo di interrogativi restati ancora oggi senza risposta; a suo tempo un nobile esempio di cinema civile non accecato dall’ideologia. Sembra che perfino il Che ne fosse rimasto impressionato: “Dopo aver visto Giuliano, disse che quel regista avrebbe dovuto fare un film sulla Rivoluzione cubana, se un giorno fosse stata presa questa decisione”.

Salvatore Giuliano muore nel 1950 circondato dalla leggenda  del ribelle disposto a sacrificare la vita per risvegliare le coscienze delle poverissime popolazioni del sud Italia schiacciate dallo  strapotere latifondista. Il film di Rosi apparve del 1962. Sette anni più tardi, il 9 ottobre del 1967, veniva trucidato  a La Higuera, in Bolivia, Che Guevara, trentanove anni, nato nel 1928 a Rosario, in Argentina e protagonista della conquista di Cuba.  Un morte annunciata avvenuta in circostanze oscure: denunciato dagli stessi campesiños che voleva sollevare alla lotta, probabilmente mandato al massacro sia dai comunisti boliviani, sia dall’Unione Sovietica e, quel che è peggio, proprio dallo stesso regime cubano che temendo la ricaduta negativa da un’azione avventuristica votata al fallimento, non aveva appoggiato la spedizione con l’invio di uomini, di viveri e di armi preventivamente concordato.  Alla base aleggiava una incomprensione ideologica, ma più verosimilmente uno scontro di gelosie tra le leadership in campo, che l’indagine di Francesco Rosi riporta alla luce con dovizia di particolari. Come accade del resto per la ricostruzione delle ultime ore del guerrigliero, e sulle versioni accreditate della sua esecuzione, ampiamente contrastanti tra loro. Una radiografia dei famosi 199 giorni indicati nel titolo del libro.

Il piano di Guevara, ma inizialmente anche di Fidel Castro, era quello di accendere tanti focolai di rivolta nel Sud America, tanti piccoli Vietnam che ardendo avrebbero incendiato l’intero continente, e realizzato ovunque il sogno di travolgere le giunte militari sostenute dalla CIA e istaurare governi autonomi sul modello cubano. “Il disegno è grandioso e lucido, malgrado un certo suo aspetto disperato”, annota Rosi nel diario. Se la strategia poteva avere un senso, la sua applicazione pratica, e la tattica adottata, si erano rivelate disastrose, e alla fine il Che era stato lasciato solo con il suo delirio, abbandonato insieme a un pugno di uomini male in arnese a contrastare le forze organizzate dell’esercito boliviano. “Mal nutristi, mal vestiti, senza medicine, braccati a ogni movimento, traditi a ogni passo, abbandonati”. Appunta il regista. E descrive la fine del Che in ogni dettaglio: la sua uccisione nella scuola di La Higuera, il successivo trasporto del corpo, legato dentro una coperta sul pattino di un  elicottero, e ricomposto infine sulla pietra della lavanderia dell’Ospedale Nuestro Señor de Malta a Vallegrande.

Dell’impresa di Che Guevara si conosce ormai la vasta letteratura, ed altri inediti anche sorprendenti il lettore troverà nel libro di Francesco Rosi. Ma per chi ama il cinema, il piatto forte risiede piuttosto nel racconto, decisamente kafkiano, di come il film non verrà mai realizzato.

Dopo un mese di sopralluoghi tra Perù e Bolivia a raccogliere sul campo notizie di prima mano,  Francesco Rosi il 17 febbraio 1968 parte per Cuba. A La Habana lo aspetta Alfredo Guevara (pura omonimia) capo della cinematografia cubana, Icaic, portavoce delle decisioni di Fidel Castro sul film in preparazione. E da quel momento il regista è risucchiato dentro una palude da cui non riuscirà più a districarsi. Castro è irraggiungibile, gli appuntamenti vengono sistematicamente spostasti e rinviati; nell’attesa gli viene concesso di parlare con alcuni personaggi dell’epopea guevariana, senza mai riuscire a capire con precisione quale sia la posizione dei cubani nei confronti del guerrigliero, sul piano ufficiale celebrato come un eroe nazionale, quasi santificato, ma all’atto pratico maneggiato con estrema prudenza, quasi fosse dinamite. Cosa vorrà affermare nel film il cineasta italiano, come si sviluppa la storia, a quali conclusioni giungerà?

Rosi, onestamente, non nasconde la sua impostazione: vuole porre interrogativi più che elargire risposte, seguendo lo stile che ha sempre connotato i suoi film a sfondo politico. L’assenso alla sua linea è unanime, il regista italiano è molto stimato, a parole, eppure si avvertono delle riserve insormontabili. Forse perché altri progetti sul Che giungono intanto dall’inglese Tony Richardson, dagli Studios hollywoodiani, dai documentaristi sudamericani. Ciascuno con una propria verità, ma allo stesso tempo alla ricerca della benedizione di Fidel, senza la quale sarà pressoché impossibile mettere le mani sui documenti riservati, e inoltre trovare un accordo di co-produzione per le non poche sequenze da girare a Cuba. Rosi, insieme a Saverio Tutino, a cui in seguito si aggiungerà Franco Solinas, propone una ‘scaletta’, di fatto un trattamento, che tutti mostrano di apprezzare ma che pure non conduce a nulla. In capo a un mese, il 17 marzo, il regista rientra in Italia soltanto con vaghe promesse, e l’intesa di rivedersi in Europa, a Roma, a Parigi, in Spagna, con il potente Alfredo Guevara più sfuggente di un’anguilla. La voglia di desistere è tanta, controbilanciata dalla ostinazione a non cedere: “Dopo quattro mesi e mezzo di lavoro e di pazienza e di manovre più o meno abili, sarebbe anche da fesso mollare tutto così. Aspetterò fino a domenica 17, incoraggiato anche dal fatto che la coincidenza di essere partito da Roma il 17 (gennaio) e di ripartire da qui il 17 (marzo) potrebbe essere un segno favorevole.” Il 13 Marzo, sempre nella speranza di incontrare il Lider Maximo, si reca alle 20.00 ad ascoltare un discorso di Fidel: “Comincia alle 21.00 finisce alle 2.00. Bellissimo discorso.” Al termine “incontro Piñeiro (Barba Roja) ma non fa alcuna allusione a eventuali appuntamenti per domani, come aveva invece fatto la sera prima”. In procinto di ripartire per l’Italia il regista riuscirà a vedere Aleida, la (seconda) moglie del Che, la quale al momento del congedo “fa dello spirito, alla sua maniera, su Tony Richardson per «provocarmi» simpaticamente”.

Le ultime quaranta pagine del racconto sono dedicate a Roma, dove il tempo dell’attesa si dilata ancora di più, smisuratamente. Nella lunga trasferta sudamericana a fianco di Rosi c’era Enzo Provenzale, organizzatore generale della PEA, la casa di produzione di Alberto Grimaldi, il quale proprio in quella stagione attuava il gran salto dal cinema commerciale al cinema impegnato. Aveva deciso di realizzare il Satyricon di Federico Fellini, reduce da pesanti vicende giudiziarie con Dino De Laurentiis dopo la rottura del contratto per Il Viaggio di G. Mastorna. Grimaldi, napoletano come Rosi, nel progetto Guevara ha messo soltanto un piede, pronto a ritrarlo alle prime difficoltà. Tra l’altro non ha mai riconosciuto al regista un finanziamento per il lavoro di ricerca svolto interamente sulle proprie forze in attesa di un contratto che  stenta a concretizzarsi. I motivi di incertezza ci sono; i cubani chiedono l’assoluto controllo dell’operazione e pongono delle clausole strangolanti: il film, anche dopo realizzato, non potrà uscire senza la loro approvazione. Chi investirebbe dei soldi con un tale capestro al collo? Si domanda Rosi da persona onesta, sia pure logorato da altri lunghi mesi di attese e chiacchiere: “Senza l’esclusione di quegli articoli contrattuali Grimaldi non va avanti e lo capisco. Io non prendo soldi da sette mesi o più: dovrò legare una parte dei miei compensi ai rientri?”.

Il lungo capitolo, per chiunque ami il cinema, è una lezione imperdibile su come procedono gli affari nel mondo della celluloide.  Che il lettore saprà apprezzare in ogni sfumatura. Ma c’è ancora un’annotazione di colore che mi pare imperdibile ed è contenuta nella prefazione al libro scritta dal regista: “Il film che non ho fatto su Che Guevara”.  Rosi arriva a La Habana ed ecco il primo impatto: “Un momento di silenzio, poi «Olà Rosi!» ed entra… Federico Fellini. Fidel è come Federico con la barba, è alto come lui, ha la stessa corpulenza, la stessa voce; la stessa voglia di piacerti e di inchiodarti al suo «charme»; è bugiardo come lui, e come lui geniale, parlatore irresistibile, canaglia e disarmato allo stesso tempo”.

Federico e Franco erano amici, sebbene con concezioni assai diverse. Fellini girava tutti i film in teatro di posa, e canzonava l’amico per l’impeto guerriero che metteva nelle sue imprese, il suo slancio a compiere viaggi impervi, scomodissimi, dormire all’addiaccio, trasformare ogni iniziativa in avventure epiche. Mi ricordo, al tempo il cui Rosi stava per realizzare in Colombia “Cronaca di una morte annunciata” dal romanzo di Gabriel Garcia Marquez, le telefonate affettuose e scanzonate di Fellini nel tentativo di trattenerlo: “Ma dove vai, che parti a fare! Tanto quello che cerchi in Colombia ce l’hai già in Italia, anzi nel Lazio; intorno a Roma trovi tutte le location che ti servono, e giri l’intero film standotene comodamente a casa tua, invece di tribolare sotto le tende militari,  con gli scarponi, l’alzabandiera, i trasferimenti nelle jeep… Non serve a niente, credimi, il film ti viene anche meglio se sei nella condizione di esercitare un controllo maggiore.” Suppongo che Federico utilizzasse analoghi argomenti anche ai tempi dell’avventura cubana: se il suo amico gli avesse dato retta! Magari oggi avremmo sul Che un altro suo capolavoro!


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