Gentiloni tenta il contropiede

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D’immobilismo, reale o apparente, si muore. Troppe nubi nere si sono addensate sulle testa di Paolo Gentiloni. Poi sono arrivati anche i travagliati addii della sinistra bersaniana al Pd, dei cumuli burrascosi forieri di tempesta per la sorte del governo. Così il presidente del Consiglio ha deciso di reagire, di tentare un contropiede.

Ha rotto il silenzio al termine del Consiglio dei ministri, ha difeso l’esecutivo e ha respinto tutte le critiche: «Al di là delle discussioni sulla velocità delle riforme, il governo prosegue nel suo cammino. Lo ha fatto con decisioni molto rilevanti, dalla tutela del risparmio alla sicurezza urbana fino all’immigrazione e alle misure per il terremoto». Per essere più chiaro ha precisato: «Lavoriamo per completare le riforme del governo Renzi» ed è un messaggio inviato «agli italiani oltre che a Bruxelles».

Paolo Gentiloni parla poco, anzi pochissimo. La riservatezza è un tratto peculiare del suo carattere, ma c’è anche un’esigenza politica. Il presidente del Consiglio, da quando a dicembre ha sostituito Matteo Renzi a Palazzo Chigi, guida un governo di transizione che deve evitare sempre nuovi scogli pericolosi. È una navigazione sempre più difficile, a vista.

L’ultimo scoglio, solo in ordine di tempo, è la scissione del Pd. Roberto Speranza, Enrico Rossi, Pier Luigi Bersani, Vasco Errani, Guglielmo Epifani, Massimo D’Alema, hanno lasciato il partito dopo un lungo scontro, aprendo la strada alla nascita dei gruppi parlamentari della “nuova formazione politica” di sinistra.

Il colpo è duro. Il Pd perderà una ventina di deputati e quasi quindici senatori, così calerà la maggioranza sulla quale può contare Gentiloni in Parlamento. Cresce il rischio di naufragio del governo. I fuoriusciti al Senato (nel quale l’esecutivo conta su una maggioranza risicata) sembrano orientati a votare anche la fiducia al governo, cosa che non farebbero alla Camera (nella quale il ministero ha un ampio margine). Tuttavia per Gentiloni aumentano i motivi per non dormire sonni tranquilli.

Il presidente del Consiglio a dicembre, nella conferenza stampa di fine anno, ha confermato l’intenzione di muoversi con cautela: «Il governo c’è finché c’è la fiducia della sua maggioranza». Ora però la maggioranza si è ridotta, è mutata sia dal punto di vista numerico sia dal punto di vista dell’identità e delle scelte politiche. Speranza e Bersani hanno già anticipato che chiederanno al governo delle “correzioni di rotta” per affrontare “il disagio sociale” e per tutelare giovani, lavoratori, pensionati e Sud colpiti dalla crisi economica.

È voluminoso il fascicolo dei problemi aperti per il presidente del Consiglio. Sul fronte politico la Lega Nord e il M5S, dall’opposizione, chiedono immediate elezioni politiche anticipate mentre il Pd sta preparando un suo turbolento congresso (Michele Emiliano ed Andrea Orlando sfideranno Renzi per la segreteria). Sul fronte economico ci sono da affrontare tanti temi delicati: l’anemica crescita, la debolezza finanziaria delle banche per i crediti deteriorati, le pressanti richieste della commissione europea di una manovra economica correttiva per ridurre il deficit pubblico. Infine c’è la questione esplosiva ed eterna della riforma elettorale, dopo la bocciatura di parte dell’Italicum ad opera della Corte costituzionale.

L’economia rischia di essere il tema più insidioso. La Ue ha chiesto una manovra aggiuntiva di 3,4 miliardi di euro, lo 0,2% del reddito nazionale, altrimenti scatteranno pericolose sanzioni per l’Italia. Si è parlato di taglio delle spese, di recupero dell’evasione fiscale, dell’aumento delle imposte indirette sulla benzina e sulle sigarette. L’estenuante trattativa tra Roma e Bruxelles per raggiungere un’intesa ancora è in corso. Gentiloni si è limitato a dire: «Faremo la correzione di conti senza manovrine depressive».

Il presidente del Consiglio deve fare i conti soprattutto con Renzi, suo amico, suo sponsor per Palazzo Chigi. L’ex presidente del Consiglio in corsa per riconquistare la segreteria del Pd non vuole sentire parlare di nuove tasse, anche perché a giugno si voterà per rinnovare i sindaci di alcune importanti città: «I 3,4 miliardi si recuperano non aumentando le accise, ma con un disegno che permetta all’Italia nei prossimi mesi di continuare a sostenere la crescita».

Non solo. Renzi preferirebbe aprire le urne per le politiche il prima possibile, senza aspettare la fine della legislatura tra un anno. Al ‘Corriere della Sera’ l’ha messa così: «Il punto è se votare a giugno o a febbraio del 2018…Si vuole andare avanti? Siamo pronti, se si riterrà che serva».

Rischia di prodursi una incredibilmente anomala politica: Renzi assieme a M5S e Lega Nord per le elezioni anticipate; scissionisti del Pd, Sinistra Italiana, Forza Italia, centristi della maggioranza favorevoli alle urne nel 2018. Instabilità politica e crisi economica possono costituire due scogli invalicabili per l’ex sindaco di Firenze.

Renzi teme di farsi logorare da un anno di governo Gentiloni, costretto a porre qualche tassa o a fare tagli alla spesa pubblica per far quadrare i conti. Tuttavia l’obiettivo di andare al più presto al voto può riservare brutte sorprese. I cinquestelle di Beppe Grillo, nonostante il flop di Virginia Raggi come sindaca di Roma, vanno sempre bene nei sondaggi e potrebbero battere un Pd renziano, mutilato della sua ala sinistra. L’ex presidente del Consiglio ed ex segretario dei democratici, dopo la trionfale vittoria alle elezioni europee del 2014 con il 40,8% dei voti, ha conosciuto una sconfitta dietro l’altra: alle elezioni regionali del 2015, alle comunali del 2016 e al referendum costituzionale dello scorso 4 dicembre.


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