Il cerchio metamorfico del tempo

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Dodici immensi dischi verticali ellittici, definiti “gusci” per la somiglianza con il carapace delle tartarughe, all’apparenza scolpiti nella roccia lavica, si materializzano in punti diversi del pianeta, restando immobili e sospesi nell’aria, a diversi metri dal terreno. Questo fenomeno di origine e intenzioni ignote, scatena inquietudine e diffidenza, se non aperta ostilità, nei governi delle varie nazioni, compreso quello statunitense, che, insieme all’esercito, invia in Montana (località nella quale è comparso uno degli oggetti misterici) la dr.ssa Louise Banks, linguista geniale e non nuova a collaborazioni con la CIA (una Amy Adams di ipnotica e toccante introspezione).

Tempo e Spazio, nel ventre oscuro del monolite, si annullano, così come si dissolve il concetto di orientamento cartesiano. Resta l’Origine, sorta di vetro opalescente dietro il quale emergono, avvolti da una nebbia in continuo movimento, giganteschi eptapodi neri privi di volto (Creature atemporali alla Lovecraft che evocano Il richiamo di Cthulhu). Per comunicare emettono dell’inchiostro che va a formare sul vetro cerchi irregolari, muniti di frange e appendici in incessante mutazione. Non si esprimono quindi per mezzo di un linguaggio, sia pure criptico, bensì attraverso la minuziosa figurazione dei suoni emessi. Suoni, simili a quelli dei cetacei, che a loro volta traducono sentimenti e sensazioni. La profezia aliena, come l’idea di trascendenza di Malick (verso la fine, un’inquadratura volutamente sfocata e colma di nostalgia cita apertamente il suo stile cinematografico), può essere ricondotta alle umanissime questioni dell’amore e della perdita, rivestite però di una complessità filosofica che riesce a emozionare profondamente.

Persino il Tempo appare una convenzione. Passato e Futuro si rincorrono e si intrecciano nel presente, precedendosi o lasciandosi indietro a vicenda. Chissà attraverso quali canali percepiamo l’esistente, visibile o invisibile. Forse attraverso il sangue degli scomparsi che vive in noi, come pensava Rilke; forse sono addirittura gli scomparsi, o meglio la loro persistenza elettrica, a utilizzare i nostri sensi per toccare le cose. Popolano i nostri sogni, sospingendoci verso una conoscenza più sottile e libera dai canoni. Così agisce la presenza di Hannah, nome palindromo che rappresenta la circolarità del Tempo, la figlia di Louise morta bambina per una forma di tumore. Morta in passato, o non ancora nata nel presente e tuttavia già svanita e rimpianta, torna in continue visioni, e le sensazioni che scorrono dalla madre alla figlia creano una diversa scansione del tempo. Presenza vivida quella di Hannah, perché ciò che chiamiamo anima, spirito, è in realtà l’essenza quasi tangibile del corpo, la sua orma calda e odorosa.

Pur conoscendo l’inevitabile finale di partita, la dr.ssa Banks sceglie di giocarla ugualmente affrontando lo strazio che l’attende (o è già presente) pur di vivere il tempo breve della felicità accanto alla figlia amatissima e condannata ancor prima della nascita. Condannata eppure eternamente salva, come revenant, ossia creatura munita della facoltà di assimilare e comporre in un disegno infantile la fusione di passato e futuro, nonché di diventare passato e futuro (nel perpetuarsi del presente) entro la visione onirica della madre.

E’ da questa sintropia mnemonica, da un meccanismo naturale di elaborazione della reminiscenza contrapposto alla barbarie dell’isteria collettiva, all’appiattimento su un presente senza storia dominato dalla paura e dal senso comune, che può iniziare una reazione a catena salvifica. Questo è il dono, non l’arma, portato dagli Eptapodi.

“Arrival” – regia Denis Villeneuve
con Amy Adams, Jeremy Renner, Forest Whitaker – produz. USA 2016
presentato in concorso alla 73^ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia


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