La riforma del cinema è un vento del passato

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Nell’ultima seduta di agosto, prima della pausa estiva, l’aula del Senato ha ascoltato la relazione sul disegno di legge di disciplina del cinema e dell’audiovisivo, pronunciata da Rosa Maria Di Giorgi come prolegomeno della futura discussione. Di settembre. Il ministro Franceschini ha sperato fino all’ultimo nell’approvazione almeno in prima lettura prima della Mostra di Venezia, luogo prestigioso dove esibire un distintivo in più non fa mai male. L’intasamento dei lavori parlamentari si è messo di traverso. Tuttavia, il governo ha già ottenuto un risultato, di cui è stata parzialmente vittima la stessa senatrice del partito democratico, presentatrice nel marzo del 2015 di un testo indubbiamente migliore di quello piovuto dal Ministero dei beni culturali. In quello, infatti, c’era il soffio di una riforma, con la piccola rivoluzione francese del “Centro nazionale” evocativo di un autogoverno del settore. Mentre ora, nell’articolato uscito dal lavoro di “montaggio” operato dalla competente commissione di Palazzo Madama, si rintraccia uno scontato “Consiglio superiore” dalla vasta attività ma dai poteri incerti, costituito da personalità di comprovata qualificazione professionale per le quali non si prevede emolumento. Quindi, precari o disoccupati di successo. E fosse questo l’unico problema.

In verità, la cosiddetta riforma è un derivato del secolo scorso; un capitolo di un’infinita saga di leggi, leggine, decreti, regolamenti che hanno reso l’impianto normativo un labirinto tanto complesso quanto privo di una visione. Per di più, in questo caso, c’è pure l’insidia del gran numero di decreti delegati previsti, secondo una prassi ormai tristemente normale. Che rende, però, la normazione spesso una cambiale in bianco. Ciò non toglie che emendamenti e vigilanza operativa saranno indispensabili. Benché si tratti di un disegno di legge assai segnato dal tempo, persino nel discorso ingiallito che corre per 42 articoli. Che delusione. Descrive con efficacia la situazione il bel volume di Simone Arcagni “ Visioni digitali” (2016, Einaudi editore, Torino), quando sottolinea lo spiazzamento che provoca l’era delle contaminazioni crossmediali in cui si costruiscono i nuovi immaginari. Ecco, allora, che la convivenza nello stesso ambiente da un lato appanna le differenze tra i vari mezzi espressivi, dall’altro ci interpella proprio sull’urgenza di rilanciare il cinema-cinema come cifra qualitativa, sintassi e grammatica per conferire senso al variopinto palcoscenico digitale. Il cinema, dunque, non tanto e non solo come singolo medium, bensì come stile e criterio produttivo. Da una riforma ci si attenderebbe, quindi, la facilitazione di un processo di connessione con la rete capace di valorizzare la creatività con e per  l’innovazione: non lo stemperamento subalterno  del film in un brodino indistinto e omologato. Già nell’articolo 2, dove si scrivono le definizioni, si capisce dove si va a parare: l’”opera audiovisiva”comprende a mo’ di fisarmonica pressoché tutto, ivi compreso il contenuto videoludico (?!) e soprattutto la televisione. Qui sta il punto: il desiderio profondo del progetto è il finanziamento delle fiction, che forse si intende sostituire al racconto cinematografico. Per cortesia, non si dica che sono solo sottogeneri di un’unica forma estetica, perché non è vero. Nella teoria e nella pratica. Se mai, allora, si poteva (e si doveva) incrementare l’entità delle risorse, contenute -nell’articolo 11- in un massimo di 400 milioni di euro presi dai versamenti di Ires ed Iva da parte di : “distribuzione cinematografica di video e di programmi televisivi, proiezione cinematografica, programmazioni e trasmissioni televisive, erogazione di servizi di accesso a internet, telecomunicazioni fisse, telecomunicazioni mobili”.

Alla lettera stanno fuori i veri ricchi del capitalismo cognitivo, come Google, Facebook e confratelli. E’ una linea o un cedimento? E neppure è la “tassa di scopo” che fu immaginata nel documento di intenti del governo Prodi del 2006 (ve ne è traccia nelle proposte delle passate legislature Colasio e Franco), concepita peraltro in un’altra stagione tecnologica, quando ancora non erano all’orizzonte gli Over the Top. Se mai è il contrario, visto che il flusso scaturisce dalla fiscalità generale e non dalla parte forte della società informazionale.  Se, poi, facciamo un po’ di conti, la cifra di 400 milioni è maggiore (di 140 milioni) del tetto attuale, sempre comprendendo la detassazione del tax credit ora curiosamente ridotta per quello “esterno”- nell’aliquota prevista dall’articolo 13-. Ma almeno 40 di quei milioni sono dedicati alle sale e pure sul restante “tesoretto” c’è molto da capire. Veniamo, infatti, al capitolo inquietante delle modalità del finanziamento. I contributi tratti dal Fondo implementato dal prelievo sono per quasi l’85% automatici, sostanzialmente appannaggio delle imprese già posizionate nel mercato; per il 15%-18% selettivi (limite elevato in sede referente con un emendamento condiviso dal governo al 25%, in pochi secondi ritirato), rivolti ai “film difficili con modeste risorse finanziarie”. Per tradurre: le società forti e trainate dal mondo televisivo (quattro o cinque, si osservino i titoli di coda) fanno la parte del leone, il resto piange. Parliamo della produzione indipendente, in breve dei film che spesso vincono i premi e si segnalano per la qualità. La percentuale attribuita alle eccellenze e ai prototipi   scende -poi-  al 10% circa, essendo compresa nella quota una sequenza di voci che attengono alla promozione in Italia e all’estero. Si leggono tra le righe le scelte del Governo: generosa mano offerta ai produttori e alle loro associazioni, uno schiaffo all’universo degli autori e delle piccole strutture.

Un’ulteriore chicca. E’ stata eliminata la figura del “mediatore o conciliatore”, immaginata per tutelare i soggetti deboli dalle storture del sistema distributivo.

Qua e là si scorgono frammenti interessanti: sull’esercizio, sulla formazione, sul modello di fruizione d’essai. “Sapore di miele”, come il titolo di un capolavoro di Tony Richardson: un cinema che per i contributi automatici neppure esisterebbe.

Fonte: “Il Manifesto”


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