A cosa serve oggi una Scuola di Politiche? Riflessioni su un’esperienza indimenticabile

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Sul finire della due giorni di lunedì e martedì scorso, mi è stato chiesto dagli organizzatori della Scuola di Politiche che sto frequentando di definire con una parola quest’esperienza. Ebbene, a me ne è venuta in mente una che, specie in Italia, non riserverei mai al quadro politico contemporaneo: ottimismo.
Senza alcuna piaggeria nei confronti di Enrico Letta, che pure ha avuto il merito di fondarla e di offrirla addirittura gratis ai suoi partecipanti, né verso Marco Meloni che la presiede e Grazia Iadarola ed Elisabetta Calise che ci hanno messo l’anima per organizzarla e renderla un’esperienza indimenticabile per tutti, senza alcuna esaltazione che mi vedrebbe in palese conflitto d’interessi, lasciatemi dire che questo lungo viaggio ha avuto un merito non secondario.

Nel fango di una crisi senza precedenti, in un contesto politico desolante, sempre più caratterizzato da opportunisti e figure di scarso, per non dire, in alcuni casi, nullo valore, fra promesse elettorali, slogan, frasi fatte e un modo di gestire la cosa pubblica che preferisce l’autorità del comando all’autorevolezza del governo, in uno scenario che induce al pessimismo più nero, ancora fatico a credere che cento ragazzi (anzi, molti di più, se si considera che le richieste di partecipazione sono state quasi settecento) abbiano deciso di opporsi a queste logiche. Mi sembra incredibile che per mesi, nelle nostre lezioni e nei nostri incontri, non sia mai stata sollevata una sola polemica, non ci si sia mai lasciati andare a una dichiarazione fuori posto, non si sia mai fatta propaganda pro o contro qualcuno, si siano rispettate tutte le opinioni e ci si sia confrontati costantemente nel merito dei problemi, nazionali e internazionali, che rendono questa fase storica una delle più intense, complesse e affascinanti di tutti i tempi.

Ancora fatico a credere che si siano riuniti intorno a un tavolo pensieri diversi, sguardi complessi, storie talvolta lontanissime, prospettive destinate a non incontrarsi altrimenti e che da questa esperienza sia nata una comunità. Ripenso alla sera in cui inviai la mia richiesta di partecipazione, spiegando che avrei voluto contribuire, innanzitutto, a ricostruire un punto d’incontro, un luogo di dibattito e di analisi, un contesto nel quale coltivare i “pensieri lunghi” di Berlinguer, e mi rendo conto che questo piccolo sogno si è trasformato in realtà.

Ripenso al nostro stare insieme, all’umiltà di tanti docenti straordinari che si sono messi al servizio di quest’avventura, a loro volta gratuitamente, e mi torna in mente quella distinzione, apparentemente banale ma in realtà decisiva, tra la politica, intesa come argomento astratto e generale, e le politiche, intese come questioni concrete, quotidiane e anche di ampio respiro: una distinzione che segna la differenza tra la propaganda fine a se stessa e la passione autentica al servizio dei cittadini. Non a caso, la scuola è dedicata a Beniamino Andreatta, autore di questa precisazione e figura insolita, specie nella fase crepuscolare della Prima Repubblica nella quale si trovò ad agire, tentando di tenere dritta la barra della serietà e della correttezza verso le future generazioni e pagando a caro prezzo per le sue denunce.

A dispetto delle sue riconosciute competenze in ambito economico, o forse proprio per quelle, venne tenuto lontano dal governo per un interminabile decennio: gli anni in cui esplose il debito pubblico, gli anni del craxismo arrembante e del CAF, gli anni di un edonismo insostenibile, sia su questa che sull’altra sponda dell’Atlantico, gli anni del disimpegno, dell’eccesso elevato a virtù, della Milano da bere e del declino dei partiti; anni barbari nei quali un galantuomo come Andreatta non poteva riconoscersi.

E quelle foto appese alle pareti dell’AREL (dove questa scuola ha avuto luogo), quel suo volto pieno, leggermente paffuto, corredato da un paio di occhiali spessi o da una pipa dal sapore pertiniano era lì a ricordarci costantemente che la politica non può e non deve mai essere intesa come l’unica attività nella vita di una persona: è una passione, può diventare persino una professione ma non può mai trasformarsi in una carriera e, soprattutto, non può essere svolta ad ogni costo, fino a trasformarsi in uomini buoni per tutte le stagioni, senza la sobrietà, la moderazione e la schiena dritta necessarie per evitare le degenerazioni cui, al contrario, siamo andati incontro negli ultimi trent’anni.
E qui sta il miracolo di questo piccolo gioiello: nell’aver contribuito a formare una serie di ragazzi e ragazze che guardano all’Europa e al mondo assai più che a una corrente di partito, che ragionano sul proprio domani senza pensare minimamente di scinderlo da quello della collettività, che credono in se stessi ma sanno, al tempo stesso, che nessuno di noi può farcela da solo e che tutti noi avremo sempre bisogno degli altri, poiché solo una comunità in cammino, capace di tenersi per mano, può consentire a un Paese sfibrato di uscire dalla crisi, morale e materiale, in cui versa, e infine che non si può mai evitare di fare i conti con la storia, la quale all’opposto va conosciuta, studiata e amata profondamente, specie se si aspira ad essere protagonisti del presente e del futuro.

E a tal proposito, consentitemi, in conclusione, di raccontare un piccolo aneddoto. Una sera, al termine di uno dei nostri incontri, un gruppetto di noi decise di recarsi a cena insieme: per conoscerci meglio, per approfondire i nostri rapporti, per consolidare un’amicizia già solida e per confrontarci a viso aperto. Ebbene, essendo l’unico romano della compagnia, mi permisi di suggerire un ottimo ristorante situato in piazza Santi Apostoli e lo feci per due motivi: il primo l’ho già detto, il secondo è che quella piazza costituisce per me un luogo dell’anima. Santi Apostoli è, infatti, la storica piazza dell’Ulivo, il luogo da cui partì quell’avventura della quale oggi avvertiamo la nostalgia e il bisogno.

Ed è lì, nel silenzio di una limpida serata romana, che ho riflettuto sul fatto che alcuni di noi la sera del 21 aprile 1996 non erano ancora nati e che nel nostro piccolo gruppo il più grande ero io che quella sera avevo appena sei anni. Ci ho pensato e mi sono tornate in mente le immagini che ho visto mille volte in televisione: la piazza invasa di bandiere dell’Ulivo, la speranza, la meraviglia, una comunità di destino che oggi si è quasi completamente perduta e l’emozione per un’esperienza che nessuno di noi ha davvero vissuto ma nella quale tutti noi ci riconosciamo pienamente.
È in quel momento che mi è tornato in mente l’insegnamento di un grande maestro come Roberto Morrione, uno degli artefici di quella vittoria: “Fai ciò che devi, accada quel che può”. In quell’istante, in quella piazza deserta, ho pensato che il vero trionfo di Morrione e di Andreatta non sia stato tanto il risultato di vent’anni fa quanto il fatto che vent’anni dopo un gruppo di ragazzi abbia avvertito l’esigenza di studiare quella storia e di trarne un insegnamento, di comprendere che quel sentiero non solo è stato appena iniziato ma che vale la pena di essere percorso fino in fondo.
Perché come scrive Jean Giono in quel piccolo capolavoro che è “L’uomo che piantava gli alberi”, l’importante non è mai vedere l’albero in tutta la sua bellezza ma gettare il seme, e pazienza se l’albero rigoglioso non lo vedremo noi, se lo vedranno solo le future generazioni, se non otterremo alcuni dei riconoscimenti che pure meriteremmo e ai squali, magari, avremmo pieno diritto.

Pazienza, perché se vent’anni dopo un gruppo di ragazzi, passeggiando per Santi Apostoli, avverte una passione politica autentica e un entusiasmo che fa ben sperare, significa che quei semi stanno germogliando, come sosteneva Federico Caffè parlando dei suoi studenti come dei libri che non aveva scritto.

“Fai ciò che devi, accada quel che può” e magari fra vent’anni a qualcuno verrà voglia di informarsi sui sogni, sulle passioni e sull’ingenuo ma benefico entusiasmo di un gruppo di persone che ha scelto di mettersi in gioco, di non rassegnarsi alla barbarie e di non arrendersi all’idea che la politica debba essere per forza quella che vediamo ogni giorno in televisione. Se ciò dovesse accadere, quella sarebbe la nostra vittoria più bella, molto più importante di qualunque riconoscimento immediato.
E oggi che Morrione e Andreatta non ci sono più, a loro va la mia gratitudine: a loro e a chi mi ha permesso di conoscerli in profondità, trasmettendomi in ogni istante la bellezza del loro esempio. E questo è ciò che conta.


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