Hannover: cronaca di un fallimento per manifesta impotenza

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Diciamo le cose come stanno: il G5 di lunedì ad Hannover fra Obama, Merkel, Cameron, Hollande e Renzi è stato un fallimento e la colpa, con ogni probabilità, non può essere addebitata a nessuno dei cinque soggetti citati.
È stato un fallimento per una questione di rapporti di forza: per occuparsi di immigrazione, di sicurezza, di ISIS, di crisi libica e di alleanze geo-politiche e geo-strategiche occorrono, infatti, un’autorevolezza, un prestigio e una possibilità di azione politica che i cinque capi di Stato e di governo oggi in prima linea oggettivamente non hanno.
Non ce l’ha Obama perché, di fatto, è un'”anatra zoppa”, un presidente con le camere ostili e ormai a fine mandato, le cui scelte saranno senz’altro rimesse in discussione dal successore (sia che si tratti della Clinton sia che si tratti di Trump), il che gli toglie autorevolezza in ogni ambito, a cominciare dalla lotta contro il Daesh, la quale richiede una linea politica chiara e, soprattutto, la possibilità di attuarla in prima persona.

Non ce l’ha la Merkel, anche se dei cinque è senz’altro il soggetto messo meglio, per il semplice motivo che, dopo undici anni di governo e nonostante il suicidio socialdemocratico andato in scena in Germania, intorno alla sua figura comincia ad addensarsi un senso di stanchezza e di fisiologica usura; senza dimenticare le difficoltà cui la cancelliera sta andando incontro in seguito alla posizione di puro buonsenso assunta nel settembre scorso in merito all’accoglienza e all’integrazione dei migranti. Contrastata da una parte del suo stesso partito, la componente bavarese della CSU, e incalzata dai populisti euroscettici di Alternative für Deutschland, anche la Merkel è in affanno e i compromessi al ribasso con Erdogan la indeboliscono, per la prima volta, pure dal punto di vista etico.
Non ce l’ha Cameron, per il semplice motivo che se il prossimo 23 giugno dovesse prevalere la linea di quanti, al pari del sindaco di Londra, Boris Johnson, vogliono dire addio all’Unione Europea, la sua carriera politica sarebbe semplicemente giunta al capolinea; sapendolo, il nostro si guarda bene dall’invischiarsi in spinose questioni internazionali che potrebbero destabilizzare ulteriormente la sua già fragile leadership, vanificando il sostegno che ha ricevuto di recente da un Obama giustamente preoccupato per l’indebolimento dell’interlocutore principale degli Stati Uniti nel Vecchio Continente e per le conseguenze che un eventuale isolamento del Regno Unito potrebbe comportare a livello globale.

Quanto a Hollande, è quasi inutile parlarne. È un capo dello Stato al minimo storico di consensi, con alle spalle un’esperienza di governo talmente fallimentare che ormai la maggior parte degli osservatori internazionali auspica l’investitura del gaullista Juppé al posto di quel déjà vu di Sarkozy, nella speranza che questa mossa riesca ad arginare la deriva lepenista che sta investendo il Paese, in una riproposizione a tinte tragiche del ballottaggio fra le due destre che andò in scena nel 2002. Solo, senza alcun prestigio personale, fiaccato da scandali personali di poco conto ma comunque influenti per quanto concerne l’immagine pubblica, incalzato da un primo ministro inadeguato come Valls e da un liberista duro e puro come Macron, costretto a muoversi in una Francia sconvolta dai recenti attentati, diciamo che il nostro è riuscito nell’impresa di mostrarsi persino più arrogante del solito, finendo col fornire una prova di debolezza sul fronte siriano che lo ha fatto apparire agli occhi del mondo come un personaggio ridicolo e umorale, privo dalla saldezza piscologica necessaria per restare nel ruolo che attualmente ricopre.
Renzi, infine, sulle questioni internazionali se la cava senz’altro meglio che negli affari interni; tuttavia, sconta la mancanza di credibilità di un Paese che continua a non offrire risposte chiare e definitive sull’invio delle truppe in Libia, come se stessimo giocando con i soldatini e non fossero in ballo, al contrario, centinaia, se non migliaia, di vite umane.
In poche parole, l’incontro di Hannover è stato un flop, una sagra dell’impotenza, un vertice utile unicamente per prendere tempo e dare l’impressione di stare agendo su dossier che, comprensibilmente, tengono milioni di cittadini con il fiato sospeso. In realtà, sui rapporti con il debolissimo governo libico di al-Serraj si brancola nel buio, per dirimere la faccenda del Daesh si attende di vedere chi sarà il prossimo inquilino della Casa Bianca, sul Brexit ci si affida alle preghiere e sulla crisi economica, almeno in Europa, si va avanti con le stesse ricette dannose e controproducenti messe in atto sinora.
È la crisi della politica, è la crisi delle leadership mondiali o, più semplicemente, è una delle innumerevoli conseguenze negative della morte delle ideologie, nell’assurda illusione che per governare bastassero una spruzzata di pragmatismo, la battuta giusta al momento giusto, tanta incoscienza e altrettanta spregiudicatezza. Il disastro di questi anni ci dimostra che non era vero niente ma ormai è troppo tardi per tornare indietro.


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