Buenos Aires quarant’anni dopo

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Buenos Aires, per non dimenticare. Sono trascorsi quarant’anni dal drammatico colpo di Stato del generale Jorge Rafael Videla che gettò l’Argentina nel terrore di una delle peggiori dittature del Ventesimo secolo, capace di sconvolgere l’intero paese e di uccidere decine di migliaia di oppositori in maniera atroce.

Torture, voli della morte, violenze d’ogni genere, un clima di costante terrore, inviti alla delazione e aberrazioni di stampo nazista come l’esortazione rivolta agli studenti a denunciare quegli insegnanti che si fossero permessi di utilizzare termini considerati tipici del lessico marxista (da borghesia a proletariato), un anti-semitismo odioso che rendeva ancora più dura la vita dei sospettati, e soprattutto dei prigionieri, ebrei e rapporti conclamati di protagonisti di primo piano come l’ammiraglio Emilio Eduardo Massera (artefice del Processo di Riorganizzazione Materiale) con la P2 di Licio Gelli, della quale era addirittura uno dei membri: questo hanno rappresentato per l’Argentina i sette anni che vanno dal ’76 all’83, quando finalmente la barbarie dei militari è collassata sotto i colpi dei propri fallimenti.

Perché guai a pensare che si sia trattato unicamente di una dittatura basata sulla forza bruta: è stata anche una dittatura di carattere economico, proprio come in Cile; due stati utilizzati come cavie da quello che Iglesias chiama il “Partito di Wall Street” per mettere in pratica la lezione della Scuola di Chicago e trasformare in atti concreti i dogmi della dottrina liberista che era valsa il Nobel per l’Economia a Friedman.
Guai a non rendersi conto della pericolosità, ma soprattutto dell’interconnessione, fra imperialismo economico e imperialismo militare: sono la stessa cosa, le due facce della stessa medaglia, come si evince anche da ciò che sta accadendo attualmente in Europa, dove la commissione più conservatrice e guerrafondaia di tutti i tempi è la stessa che nel luglio scorso ha stroncato il tentativo della Grecia di ribellarsi al cappio che sta strangolando l’intero Occidente, mettendo a repentaglio e condannando alla rovina milioni di persone.

Quella sperimentata in Argentina è stata una violenza duplice: economica e politica, basata sull’arricchimento smodato delle aziende straniere accorse ad investire nel paese e delle alte gerarchie del regime e sul progressivo immiserimento dei cittadini comuni, privati poco a poco di qualunque diritto, a cominciare dalle tutele sindacali e dalla salvaguardia della qualità del lavoro.
L’Argentina come metafora, dunque: un simbolo di ciò che siamo diventati, uno specchio che riflette alla perfezione la deriva disumana cui siamo andati incontro, un baratro della civiltà che ha fatto scuola ed è stato esportato anche altrove, un insulto alla democrazia e ai suoi princìpi basilari, la devastazione del concetto stesso di umanità, l’esaltazione del profitto a tutti i costi, il modello cui si sono ispirati successivamente tanti altri regimi, compresi quelli mascherati da democrazie.

Senza contare il processo di indottrinamento dei giovani che indusse le coraggiosi madri di Plaza de Mayo, le quali manifestavano ogni giovedì davanti alla Casa Rosada per chiedere informazioni sulla sorte dei propri figli scomparsi, ad affermare che la vera intuizione della dittatura militare era stata quella di diseducare a dovere la popolazione, in quanto “un popolo ignorante si governa più facilmente”. Non certo una novità, ma diciamo che lo scempio raggiunse in Argentina vette notevoli.

Di fronte a tanto dolore, a tanta ferocia, a tanta malvagità gratuita, a tanta indecenza, a tanto abisso senza pietà e senza ritorno, di fronte a tutto questo, non possiamo che riflettere su quanti cambiamenti siano avvenuti in questi quarant’anni, salvo poi dover prendere amaramente atto che, dopo una nuova esperienza di carattere peronista, con la guida del paese affidata ai coniugi Kirchner, l’Argentina si è affidata nuovamente a un liberista duro e puro come Macri, le cui idee, almeno in ambito economico, sono in linea con i capisaldi della Scuola di Chicago, riadattati al contesto sudamericano.

Buenos Aires, quarant’anni dopo. Una lacrima, un fiore, una poesia, una speranza e un pianto per tutte le vittime di quell’orrore che in questa stagione di normalizzazione politica, di banalizzazione culturale, di finanziarizzazione dell’economia, di pensiero unico dilagante, di negazionismo e di revisionismo storico abbiamo preferito mettere da parte, come se fosse possibile chiudere le loro grida e la loro disperazione in un cassetto, come se fosse possibile coprire la vergogna dell’Italia che, a causa della presenza di esponenti della P2 ai vertici di tutti i corpi militari, nonché all’interno delle istituzioni e del mondo bancario e finanziario, negò l’asilo politico ai nostri concittadini residenti in Argentina e minacciati dal regime in quanto dissidenti, come se fosse possibile passare oltre e voltare pagina a cuor leggero, senza aver prima analizzato la responsabilità collettiva di un mondo indifferente nei confronti di un massacro sistematico per il quale non esistono le parole adatte per chiedere perdono.


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