Chiama “mascalzone” il giornalista, ma il giudice lo assolve: il caso all’attenzione dell’antimafia

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Definì «mascalzone» il giornalista e «poco di buono» il direttore del giornale, ma per il Tribunale di Palmi non ha commesso reato. 

Il giudice Giuseppe Ramondino ha infatti assolto Giovanni Pecora, vicepresidente della Fondazione antimafia “Antonino Scopelliti” dall’accusa di diffamazione a mezzo stampa e continuata nel processo nato da una querela sporta nel 2012 dal cronista Agostino Pantano (nella foto) che, con un proprio avvocato, era costituito parte civile nel procedimento.

Il togato palmese, che non ha ancora scritto le motivazioni della sua sentenza, ha dunque giudicato non offensiva una condotta con cui l’imputato secondo la Procura – più volte e tramite articoli, interviste e post sui social network – aveva contestato un’inchiesta che, pubblicata sul Corriere della Calabria, dava conto della residenza di Pecora in un palazzo abusivo costruito e mantenuto dal clan Longo di Polistena.

Il servizio giornalistico di Pantano, mai smentito secondo le vie formali e anzi ripreso successivamente da altri organi di informazione, tra cui Repubblica, aveva suscitato parecchio clamore per via della doppia condizione in capo a Pecora e alla sua famiglia di leader dell’associazionismo antimafia e inquilini nella casa di un mafioso: oltre all’imputato era infatti residente nell’immobile di Cinquefrondi anche il figlio Aldo, presidente dell’associazione Adesso Ammazzateci Tutti. Secondo la Procura all’epoca diretta da Giuseppe Creazzo, almeno due sarebbero stati i commenti diffamatori all’indirizzo del lavoro di Pantano. Nel primo, postato da Pecora in una delle tante discussioni sui social network sortite dal rilievo della notizia contenuta nell’articolo del Corriere della Calabria, il cronista veniva appellato con l’epiteto di «mascalzone» senza risparmiare il suo direttore Paolo Pollichieni, definito «poco di buono».

Nel secondo, l’imputato – tramite un editoriale sul proprio blog il cui titolo era “Pericolo rincoglionimento o pericolo e basta” – accusava Pantano di essersi creata la fama di giornalista minacciato, mettendo in dubbio pesantemente l’onorabilità dei carabinieri della Compagnia di Gioia Tauro.

Un impianto accusatorio dettagliato e molto documentato, che però non ha retto al vaglio del Tribunale che ha ritenuto che i fatti esposti nel dibattimento – dalla Procura ora guidata da Ottavio Sferlazza e dalla parte civile rappresentata dall’avvocato Maria Corio – non costituiscono reato.

Vi è da aggiungere che questo processo durato due anni, e nel quale l’imputato ha scelto di non sottoporsi ad alcun interrogatorio, risultando presente solo nell’udienza conclusiva coincisa con l’emissione della sentenza, era diventato un caso anche a seguito di alcune denunce pubbliche con cui il giornalista aveva contestato ritardi e strategie parecchio sospette.

In particolare Pantano aveva presentato un esposto per documentare la presunta illegittimità di una istanza con cui il legale dell’imputato aveva ottenuto il rinvio di un’udienza nevralgica del processo, aggiungendo come si sia trovato di colpo in quei frangenti a passare dalla condizione di parte civile da tutelare a quella di indagato a causa di una querela – la seconda presentata dall’imputato dopo che una prima era stata archiviata – per il modo in cui ha espresso solidarietà alla giornalista Federica Angeli, anche lei destinataria di contestazioni sopra le righe per aver ripreso su Repubblica la notizia del Corriere della Calabria.

Un insieme di strategie dilatorie che, aggiunte alle delegittimazioni documentate dalla Procura nei due capi di imputazione per Pecora, hanno colpito il diritto di cronaca del giornalista ma anche la sua funzione sindacale di rappresentante dell’Unci, in un caso allo scopo di non fargli proseguire la sua inchiesta su altre frequentazioni nel palazzo del clan e nell’altro per indurlo al silenzio con una “querela pretestuosa” evidentemente strumentale.

Per questi fatti documentati dal giornalista, una richiesta di audizione del cronista in commissione antimafia, presentata dal senatore Francesco Molinari, è tuttora all’esame della presidente Rosy Bindi che da tempo ha avviato una indagine sul movimento civile dell’antimafia alla luce dei recenti scandali affiorati anche in Calabria.

Non sarebbe la prima volta che gli organi impegnati contro la criminalità mafiosa si occupano delle vicende che riguardano il giornalista Pantano, impegnato in un altro caso giudiziario di profilo nazionale – è infatti sotto processo per ricettazione a seguito di un’inchiesta giornalistica sullo scioglimento per mafia di un consiglio comunale calabrese –  e la cui trattazione, dopo la mobilitazione avviata per primo dal segretario nazionale aggiunto della Fnsi, Carlo Parisi, è stata affrontata dalla commissione regionale antindrangheta in una recente audizione del presidente dell’Ordine dei giornalisti calabresi, Giuseppe Soluri.

«Rimango in rispettosa attesa delle motivazioni della sentenza di assoluzione dell’imputato – commenta Pantano – ma tengo a ribadire che, al di là di come il giudice onorario spiegherà la sua decisione, in questa vicenda emergono profili che vanno oltre il reato asserito dalla Procura e non trovato dal Tribunale. Vi era e vi è anche da sottoporre a giudizio l’atteggiamento di una certa antimafia italiana, che delegittima il lavoro giornalistico quando è scomodo e non può essere smentito dai fatti, vessa il giornalista con querele pretestuose, muovendosi né più né meno come un qualsiasi altro potentato che si ritiene immune da critiche e pretende una certa impunità. Trovo veramente singolare – conclude il giornalista – l’aver consentito che il processo in cui ero parte civile si sia trasformato in un processo contro di me, che, a fronte di un’inchiesta giornalistica rimasta non smentita, sono stato criticato per aver denunciato la macchina del fango, aver affidato alla giustizia la difesa dell’onorabilità della mia categoria, e informando aver provocato, cito testualmente, la reazione di chi mi ha definito mascalzone».


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