Un selfie per non dimenticare

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Camminando per le vie del centro di Cracovia non c’è agenzia che non promuova una gita ad Auschwitz. E’ una delle mete più gettonate insieme alla miniera di sale e alla visita a Nowa Huta Utah, il quartiere  sorto attorno ad un’acciaieria come esempio della città ideale comunista.

Ci arriviamo con l’autobus di linea che per arrivare impiega un’ora e mezza. La strada è bianca per la neve dei giorni scorsi e l’aria è una morsa di gelo appena scalfita da un sole che fatica a farsi spazio A bordo pochi turisti. All’entrata del campo principale di Auschwitz , ora museo, ci iscriviamo in una visita guidata programmata in lingua italiana. Gli italiani sono tra i più assidui visitatori del museo, subito dopo i polacchi, gli abitanti del Regno Unito, gli statunitensi ed i tedeschi.

Nostri compagni di strada sono alcuni ragazzi e ragazze arrivati con una gita organizzata. Esibiscono un abbigliamento variopinto da stazione sciistica e tracimano tensione ed eccitazione. A pochi metri dal simbolo di Auschwitz, il cancello con la scritta arbeit mach frei il lavoro rende liberi, non riescono a trattenersi e scattano un selfie . Così, tanto per catturare un momento storico.

La guida è una signora polacca avanti con gli anni che parla lentamente, come se ogni volta faticasse a trovare le parole più giuste per raccontare tanto dolore.

Gli edifici del lager hanno mantenuto lo stesso assetto del 1945. Da allora sono stati eseguiti solo interventi di manutenzione. Entriamo nel campo di sterminio di Auschwitz e poi visiteremo quello di Birkenau a pochi chilometri di distanza.  Tra il giugno del 1940 ed il 27 gennaio del 1945, data dell’arrivo delle truppe di liberazione russe, ci hanno perso la vita circa un milione e duecentomila persone. In prevalenza ebrei, ma anche polacchi che si opponevano al regime, zingari, testimoni di Geova, omosessuali.

Entrando nello spazio fotografico del museo allestito in uno dei primi blocchi del campo ci accoglie una frase: coloro i quali si dimenticano della storia sono condannati a riviverla”.

E’ nell’ombra che si nasconde l’immagine del terrore. Lo rivela una delle foto esposte che documentano la liturgia dell’orrore che ogni giorno si celebrava nei lager di Auschwitz e di Birkenau. E’ uno scatto contenuto in un album fotografico sottratto all’archivio nazista da una prigione ria ebrea che si era salvata  fingendosi morta durante le convulse fasi  precedenti all’ingresso delle truppe dell’armata russa nei cancelli di Auschwitz. Gli originali si trovano nel Museo Yad Yashem di Gerusalemme. Guardando attentamente la zona d’ombra della scena documentata nella foto si vede un ufficiale nazista indicare con il pollice ad un anziano deportato la via da seguire. Quello che il vecchio era obbligato  ad imboccare era un sentiero di morte, il tratto di poche centinaia di metri che lo separava dalle camere a gas e dai forni crematori. Succedeva sempre così quando ad Auschwitz Birkenau  arrivava uno dei convogli provenienti da mezza Europa con centinaia e centinaia di deportati ammassati come animali. La prima cosa alla quale i prigionieri venivano sottoposti una volta scesi dal treno era  l’accurata selezione effettuata da ufficiale medico delle SS. Era lui che decideva. Da una parte gli uomini forti e comunque coloro che apparivano adatti al lavoro. Dall’altra parte invece venivano radunati la maggior parte delle donne, tutti i bambini, tutti gli anziani e quelli che erano menomati anche dal più piccolo handicap fisico. Si trattava di  circa il 60% dei soggetti che arrivavano nel campo di concentramento. Per queste persone il verdetto era immediato e senza appello. Intimavano loro di dirigersi verso gli stanzoni delle docce che erano in realtà  camere a gas dove li attendeva la morte.

Altre foto fondamentali esposte ad Auschwitz, decisive per stroncare qualsiasi tentazione revisionista, sono quelle scattate dal fotografo polacco Wilhelm Brasse. Chissà se i ragazzi del selfie conoscono la sua storia. Brasse era una prigioniero al quale i nazisti avevano affidato il lavoro di fotografo del servizio di identificazione. Non appena i prigionieri arrivavano al campo dovevano essere fotografati e schedati. Sotto ciascuna foto venivano poi annotati alcuni dati: nome, data di arrivo nel lager e data di morte. Materiale scottante che i nazisti pensarono bene di bruciare prima dell’arrivo delle truppe alleate. Non riuscirono però a distruggere tutti i negativi perché proprio Wilhelm Brasse, rischiando la vita, riuscì a salvarne una piccola parte. Immagini preziose che ci forniscono dati fondamentali per conoscere il periodo medio di sopravvivenza per i lavoratori del capo di sterminio: sei mesi per gli uomini e tre o quattro mesi per le donne.

Dopo la guerra Brasse ha dovuto smettere di scattare le fotografie. Ogni volta che sistemava qualcuno davanti all’obiettivo, ogni volta che incrociava i suoi occhi, veniva assalito da un’invincibile angoscia e gli sembrava di rivedere in quella persona  le stesse espressioni di terrore muto  che aveva visto dipinte nei volti dei prigionieri di Auschwitz .

Ora che entriamo nelle  stanze degli oggetti e degli indumenti dei prigionieri, adesso che la materialità delle cose sembra restituire anche qualcosa della fisicità dei prigionieri, un sentimento di pena assoluta sembra avvolgere il gruppo. Sono quei pochi oggetti che i nazisti non hanno fatto in tempo a far sparire. Pentole, abitini di bambini, scatole di lucido. Sono quelle scarpe che venivano distribuite in maniera casuale ai prigionieri senza far minimamente caso al numero. Se la misura non corrispondeva nemmeno alla lontana con quella del tuo piede, allora dovevi fare a meno delle scarpe ed aspettare di infilarti quelle del primo prigioniero morto. E poi la lugubre distesa dei capelli con i quali i nazisti lucravano per realizzare tessuti. Si sono conservati intatti forse per gli effetti del cianuro con il quale sono entrati in contatto.

Quando arriviamo nel luogo dove al mattino e alla sera veniva eseguito l’appello, lo spiazzo sembra risuonare ancora della voce sinistra delle guardie. Gli appelli, se erano punitivi, potevano durare anche venti ore, con i prigionieri assiderati d’inverno e bruciati dal sole d’estate mentre le sentinelle naziste rimanevano riparate nella loro guardiola di legno. L’appello serale era fondamentale. Il numero dei prigionieri doveva corrispondere a quello contato il mattino. Per questo i prigionieri avevano l’ordine di trasportare per l’appello anche il corpo dei loro compagni morti durante il giorno. Solo così i nazisti avevano la certezza che nessuno era fuggito.

Ci sono degli edifici nel campo di Auschwitz  che i responsabili del museo hanno assegnato ad alcuni stati  i quali hanno la facoltà di allestirli come luoghi nei quali raccontare in maniera documentata le vicende storiche delle deportazioni avvenute all’interno dei propri confini. La guida ci dice che fino a quattro anni fa anche l’Italia aveva un suo spazio allestito ma che poi ha deciso di chiuderlo. Non sappiamo se le cose stiano davvero così. Tuttavia se la situazione fosse davvero questa,  ecco un impegno che il governo italiano dovrebbe prendere in occasione di questa giornata della memoria: riaprire quello spazio per documentare le deportazioni  di ebrei partite dalla nostra terra per Auschwitz Birkenau ( circa settemila delle vittime furono italiane) e allo stesso tempo per raccontare il coraggio dei tanti italiani che hanno salvato gli ebrei dalla repressione nazifascista.

Per fortuna anche in questo luogo del male assoluto che ha combinato la vecchia pratica della schiavitù con la macchina moderna della distruzione di massa possiamo trovare delle storie capaci di lenire quella pena e quel dolore profondo che sembrano travolgerci. Come la storia di Frank Lowy. Frank era poco più di un ragazzo quando arrivò a Birkenau come deportato ebreo insieme al padre Hugo. Scendendo dal convoglio Hugo fece cadere alcuni oggetti liturgici e si chinò per raccoglierli scostandosi un po’ dalla fila. Una scarica di mitragliatrice sparata da un soldato tedesco lo fulminò proprio sotto gli occhi del figlio. Frank riuscì a sopravvivere al campo di sterminio e per tutta la vita coltivò il sogno di riscattare in qualche modo la morte orribile del padre. Così, lui che non aveva grandi risorse economiche, risparmiò continuamente per potersi permettere di acquistare dal governo polacco un vagone ferroviario uguale in tutto e per tutto a quelli che circolavano negli anni della guerra. Ci ha messo dentro oggetti liturgici e qualche anno fa lo ha regalato  al Museo di Auschwitz. Oggi fa bella mostra di sé nel campo di Birkenau e tutte le guide nei loro itinerari raccontano la storia di Frank , dell’uomo che non tenacia ed infinito amore ha saputo rendere la memoria del padre più forte della ferocia nazista.

Oppure storie come quella di Batszewa Dagan, una signora polacca deportata ad Auschwitz. Durante la prigionia conobbe una giovane donna ebrea tedesca che era stata strappata dai nazisti alla piccola figlia. Un giorno questa donna vestita di nero e dagli occhi perennemente tristi le fece un dono: un paio di minuscole scarpe di pelle che lei aveva cucito in gran segreto. “ tienile con te- le disse- perché queste scarpe ti condurranno alla libertà”. E fu esattamente quello che Batszewa fece, nascondendo le scarpe durante la prigionia dentro il materasso di paglia e poi  nei suoi pantaloni. Dopo il 27 gennaio del 1945 riacquistò la sua libertà pur tra ferite e cicatrici che niente e nessuno avrebbero più potuto risanare. In memoria di quella sua compagna di prigionia  Batszewa ha deciso qualche tempo fa di donare a sua volta quelle minuscole scarpe, dono ricevuto e simbolo della libertà ritrovata. E c’era secondo lei un solo luogo adatte ad accoglierle. “ Ad Auschwitz sono nate – ha pensato- ed è ad Auschwitz che devono ritornare”.


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