Immigrati: ripensare la donazione/raccolta abiti usati per evitare di ingrassare ancora di più le mafie transnazionali

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Ieri sera è andata in onda l’ultima puntata di Piazza Pulita, tanto girato e poche chiacchiere. Una puntata denominata Esodo, che ha ripercorso con i migranti le rotte che attraverso l’Africa, partendo da Kobane, portano al Nord Europa, passando per la Libia, il Marocco e le bidonville clandestine italiane. Deserti, mare, accampamenti di fortuna, campi di raccolta, treni, Tir, grotte, montagne, barriere alte tre metri (e a breve forse sei), campi di golf e carceri: tutto per giungere in Europa, dove di certo gli animali viaggiano meglio delle persone e le merci sono davvero libere di circolare.

C’è stato un passaggio marginale all’interno della puntata che ha reso bene l’idea del rapporto/merci persone: le Barriere di separazione di Ceuta e Melilla. Dovrebbero ostacolare o impedire l’immigrazione illegale e il contrabbando, in realtà, in relazione al contrabbando non si pongono alcun tipo di problema. Passa di tutto, basta che sia portato sulle spalle di un trasportatore, e fosse anche solo abbigliamento di seconda mano questo commercio atipico, ormai è inesorabilmente nelle mano della criminalità organizzata. In Italia, 110mila tonnellate di vestiti raccolte mediamente ogni anno, per un business di 200 milioni di euro. In teoria gli abiti usati donati dovrebbero essere indirizzati verso i meno abbienti che ne abbiano bisogno. In realtà, una grossa parte di essi viene immessa nel settore Profit, per ricavare fondi che servono a finanziare progetti emergenziali e umanitari. Il problema che il  circuito del commercio dell’usato ha una regolamentazione del tutto labile, a cominciare dalla quantificazione della merce raccolta, che facilita l’operato della criminalità organizzata.

Come sottolineato anche dal rapporto “Indumenti Usati: Come Rispettare Il Mandato Del Cittadino? “ elaborato da Humana People to People Italia e Occhio del Riciclone: nel mercato dell’usato esiste una puna regola economica molto particolare. Nelle zone e nei paesi dove il reddito della popolazione è più basso l’usato costa di più, e costa di meno nei paesi dove il reddito della popolazione è più alto. Dove la gente non ha molto potere d’acquisto, infatti, c’è più domanda perché i beni usati sono considerati più accessibili; c’è però anche minore rotazione di beni nuovi perché gli indici di consumo sono inferiori: e ciò determina, automaticamente, una scarsa disponibilità di beni usati di produzione locale. Dove invece la gente ha maggiore potere d’acquisto ci sono più beni usati e sono di maggiore qualità; però la domanda locale è inferiore e quindi i prezzi dell’usato sono più bassi. Nel caso degli indumenti, la differenza di prezzo e di disponibilità tra i mercati dei paesi più benestanti e quelli più poveri determina un importante flusso che procede dai primi verso i secondi. I paesi più poveri assorbono seconda, terza e quarta qualità (che hanno poco mercato in quelli più ricchi).

E come evidenziato dal servizio di Piazza Pulita, nel flusso in uscita tra Europa e Africa, a ridosso delle Barriere di separazione di Ceuta e Melilla, passa di tutto. Per cinque euro a carico (immensi sacchi da trasportare sulla schiena o trascinare a terra) uomini e donne trasportano carichi pesantissimi da una parte all’altra. È il loro lavoro, per assicurarsi la sopravvivenza quotidiana. Questa merce non sarà controllata perché – per un trattato degli anni settanta – non dovrà pagare dazi. E la disperazione va in scena ogni giorno.

E’ forse giunto il momento che anche volontariato e terzo settore ripensino interamente la struttura donazione/raccolta abiti usati per evitare di ingrassare ancora di più le mafie transnazionali.


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