Cosa ci insegna il terrorismo jihadista

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Abbiamo ancora negli occhi le drammatiche immagini dell’attentato che ha sconvolto Tunisi, colpendo i turisti presso il Museo del Bardo e ferendo a morte la cultura e la speranza di una giovane democrazia mediterranea che ha avuto la forza di liberarsi da una tirannide, quella di Ben Ali, non per mettersi nelle mani di un altro barbaro o del nazismo moderno costituito dal Califatto di al-Baghdadi bensì per tentare di cambiare rotta e darsi una guida scelta dai cittadini in regolari elezioni.

Un’ambizione, una prospettiva, una speranza: ciò che infastidisce maggiormente seguaci e cantori della jihad, ciò che da sempre i dittatori cercano di calpestare, ciò che purtroppo non è nato negli altri paesi coinvolti dalle cosiddette “primavere arabe” che tanto ci avevano illuso nell’inverno del 2011.

D’altronde, basta osservare la loro storia per rendersi conto delle ragioni per cui la rivoluzione ha funzionato, finora, solo in Tunisia: a differenza della Tunisia, infatti, Libia ed Egitto non hanno conosciuto una leadership almeno inizialmente illuminata come quella di Bourghiba ma, rispettivamente, il regno ininterrotto di Gheddafi e quello non meno soffocante dei militari, entrambi così opprimenti da aver lasciato, alla loro caduta, un vuoto tale da essere colmato, nel caso egiziano, da un generale golpista (al-Sisi) e, nel caso libico, dall’avanzata delle milizie dello Stato Islamico, mentre le fazioni di Tripoli e Tobruk si ostinano a farsi la guerra per il controllo del Paese, incapaci di unirsi o anche solo di dialogare per far fronte al nemico comune. Il guaio, e sul punto ha perfettamente ragione l’ex leader Ali Zeidan, è che l’ambiguità del governo islamista di Tripoli nei confronti dell’ISIS rende impossibile qualunque forma di interlocuzione, mancando completamente una visione politica e un’idea che sia una di ricostruzione e rilancio del Paese.

Al tempo stesso, sul versante opposto, risultano ormai imbarazzanti le concessioni che l’Occidente, governo italiano in primis, sta facendo al generale al-Sisi: golpista, retrogrado, oppressore, governante dal pugno di ferro e anche piuttosto guerrafondaio; un personaggio che di democratico non ha nulla e, meno che mai, conosce il significato della parola moderazione, dunque un “alleato” da prendere con le molle, se non vogliamo replicare la figuraccia nella quale siamo incappati, Stati Uniti in testa, nei confronti di Assad.

Ogni volta che si profila all’orizzonte una minaccia, infatti, noi commettiamo l’errore di elevare i peggiori figuri della polveriera araba e mediorientale a salvatori dell’umanità, e così spariscono dai radar i giornalisti imprigionati, gli oppositori torturati, gli avversari politici uccisi, le leggi liberticide, le violenze, gli orrori e qualunque altra malefatta, nel disperato tentativo di appaltare al sanguinario di turno l’intervento contro i nuovi barbari che, magari, un domani, diventeranno a loro volta i salvatori dell’umanità quando una minaccia ancor più mostruosa verrà a minare i nostri fragili equilibri.

Mai che ci sfiori minimamente l’idea che una parte di responsabilità del disastro in corso è nostra, mai che ci venga in mente che quei paesi li abbiamo destabilizzati noi con una divisione territoriale artificiosa (il famoso accordo Sykes-Picot del 1916) e uno sfruttamento indegno ed incivile di uomini e risorse, mai che un governante occidentale trovi il coraggio di compiere un minimo di autocritica per lo squallido, e disumano, sostegno accordato, a suo tempo, ai vari Gheddafi e Saddam, salvo poi festeggiare per la loro deposizione ed eliminazione.

E mai che a qualcuno venga in mente che il nostro fondamentalismo non è poi tanto meno odioso di quello dei seguaci del Califfo, in quanto, tutto sommato, è complementare, come dimostra ciò che sta accadendo nella Francia sconvolta a inizio anno dalla ferocia dei terroristi che assaltarono la redazione di “Charlie Hebdo” e il negozio “kosher” di Parigi.

Perché è inutile girarci intorno o festeggiare per la piccola battuta d’arresto di un Front National comunque stabilmente oltre il 20 per cento; in Francia, come nel resto d’Europa, si fronteggiano ormai due opposti integralismi: da una parte, la rabbia cieca e furiosa dei musulmani esclusi, ghettizzati, confinati nelle banlieue, discriminati e dunque facile preda dei messaggi d’odio di chi, interpretandolo in modo strumentale, ha trasformato l’Islam da religione a ideologia di morte; dall’altra, l’estremismo non meno incivile di una fascista figlia di un fascista, alla guida di un movimento spaventoso e basato su idee deliranti, e la cinica furbizia di un ex presidente, Sarkozy, che non ha trionfato arginando il partito della Le Pen (non è Chirac, non siamo nel 2002 e l’alleanza repubblicana contro i frontisti ormai non tiene più) bensì ricalcandone il messaggio di chiusura (su immigrazione, Schengen ecc.) e alcune idee che allontano un grande paese fondatore dalle ragioni costitutive dell’Europa unita.

Ciò su cui neanche stavolta abbiamo riflettuto a dovere è ciò che sta accadendo dentro di noi, all’interno del nostro mondo, delle nostre società, nelle quali sembriamo non renderci conto che anche i partiti sedicenti moderati o addirittura sedicenti di sinistra non fanno altro che introiettare il peggio del peggio dei partiti e dei movimenti populisti, razzisti e xenofobi che pure dicono di combattere, dei quali dovrebbero essere avversari e invece finiscono con l’essere i migliori alleati, portando le loro idee (se così è lecito chiamarle), la loro assurda e gretta visione del mondo, la loro crudeltà, il loro millenarismo, il loro desiderio di rogo e di pestaggio dalle piazze al governo, con una rappresentanza parlamentare pronta a concedere la fiducia a questi deliri.

A furia di combattere il terrorismo, siamo diventati terroristi anche noi; a furia di aver paura, al punto di creare psicosi a ripetizione e seminare il panico fra la gente, viviamo ormai in società incerte e spaventate; a furia di insolentire, isolare e mettere a tacere chiunque si opponga a questo mostruoso e devastante modello economico e sociale, abbiamo assistito alla degenerazione della politica e all’inseguimento di personaggi che un tempo erano costretti, giustamente, a nascondersi in quanto incompatibili con le più elementari idee di democrazia e civiltà; a furia di vestire i panni dei jihadisti dell’anti-jihad, abbiamo messo a repentaglio, fin quasi a farli scomparire, diritti e libertà che un tempo erano il fiore all’occhiello della nostra parte del mondo. E andrà sempre peggio, non facciamoci illusioni: ora tocca alla Francia, fra pochi mesi alla Gran Bretagna, prima o poi sarà la volta dell’Italia e della Germania, per non parlare di quanto sta avvenendo a est e nei paesi scandinavi, un tempo santuari del pensiero socialdemocratico ed emblemi dell’apertura mentale e del progresso.

Al che, al cospetto di questa rutilante modernità da molti descritta come la panacea di tutti i mali, torna in mente una domanda di Pier Paolo Pasolini: “Abbiamo di tutto e di più, ma chi tiene il conto di ciò che abbiamo perso?”.


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