Kenyatta in Europa per 2 processi all’Aia

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Ci avevano già provato il 20 giugno a Malabo, capitale della Guinea Equatoriale, durante il 23° summit dell’Unione Africana a sottrarre ai processi i Capi di Stato africani imputati dinanzi alla Corte Penale Internazionale dell’Aia votando un emendamento all’art. 46A dello Statuto della Corte africana di giustizia e dei diritti umani col quale si stabiliva che i leader di uno Stato africano o gli alti funzionari statali non possono essere sottoposti a processo durante la loro permanenza in carica. Quell’emendamento i Capi di Stato africani l’avevano pure votato quasi all’unanimità, 53 membri su 55, accusando la CPI di neocolonialismo e di accanimento, oltre che contro il Presidente keniano Uhuru Kenyatta, anche contro Omar Hasan Ahmad al-Bashir, Presidente del Sudan e contro Laurent Koudou Gbagbo, sebbene quest’ultimo non fosse più presidente della Costa d’Avorio e, anzi, si trovasse in carcere all’Aja.

Ma non c’è stato nulla da fare e il più importante esponente politico africano Uhuru Kenyatta, sebbene eletto democraticamente, ha dovuto capitolare ed è in procinto di lasciare l’Africa per comparire dinanzi ai giudici in Europa. La scelta non è stata semplice ed ha comportato proprio ieri una modifica costituzionale adottata dal Parlamento keniota durante una seduta speciale. A seguito della modifica dell’art. 134, paragrafo 3, si è stabilito che, quando il presidente è assente o è impossibilitato temporaneamente, e durante qualsiasi altro periodo in cui lo ritenga opportuno, il Vice Presidente esercita le funzioni di presidente.

Conseguentemente il Vice Presidente William Ruto ha assunto la carica di Presidente facente funzioni permettendo così a Uhuru Kenyatta di raggiungere la Corte Penale Internazionale a titolo personale e non in qualità di capo di Stato, intendendo così garantire che la sovranità e la volontà democratica dei keniani non venga sottoposta ad una giurisdizione straniera, come ha riferito Kenyatta in Parlamento. Nel suo discorso Kenyatta è stato durissimo col Procuratore della CPI Fatou Bensouda che ha accusato il Kenya di non collaborare al caso. “La mia coscienza è pulita. – ha detto Kenyatta ai deputati – E’stato chiaro e sarà sempre chiaro che io sono innocente di tutte le accuse mosse contro di me. Il procuratore ha ammesso che le prove disponibili non sono in grado di dimostrare la mia responsabilità penale. Mi aspettavo – ha proseguito Kenyatta – che la questione venisse lasciata cadere per mancanza di prove. Invece il pubblico ministero ha chiesto una proroga delle indagini ed ha accusato il governo di non cooperare”.

La singolarità dell’abdicazione di Kenyatta sta nel fatto che anche il suo vice William Ruto è accusato di fronte alla medesima CPI e per gli stessi fatti per i quali è incolpato Kenyatta. I fatti per i quali si procede a carico di entrambi risalgono agli scontri che causarono 1.200 vittime, brutalmente uccise a colpi di machete, dopo le elezioni del 2007 in cui Kenyatta e Ruto erano avversari ed appartenevano a gruppi tribali rivali. I due sono accusati di aver sostenuto l’eccidio con pressioni sulle rispettive bande più facinorose.

Ma non è solo dinanzi alla CPI che Kenyatta dovrà comparire all’Aia. Nella stessa Città, ma dinanzi alla Corte Internazionale di Giustizia – l’organo giudiziario delle Nazioni Unite e l’unica delle sue cinque principali articolazioni che non abbia sede a New York – la Somalia ha convenuto il Kenya per risolvere l’annoso contenzioso sui confini marittimi cui sono collegati i diritti di sfruttamento delle enormi riserve di petrolio e di gas di quell’area marina estesa per più di 100 chilometri quadrati.

La Somalia, dalla sua posizione a nord del Kenya, afferma che il confine prosegue idealmente in mare seguendo la linea della frontiera terrestre e, quindi, in direzione sud-est, secondo le regole dell’ONU. Il Kenya, invece, vuole rivedere il confine marittimo già stabilito affinché segua la linea retta verso est, volendo così acquisire un territorio maggiore sul mare per il quale, peraltro, ha già abusivamente venduto licenze di sfruttamento a varie multinazionali, tra cui l’ENI. Alla luce del conflitto sollevato dalla Somalia, le imprese americane e norvegesi concessionarie hanno già abbandonato i campi per evitare a loro volta di essere trascinate in tribunale.

Entrambi i Paesi hanno riconosciuto la competenza della Corte Internazionale di Giustizia, un prerequisito essenziale per sviluppare la disputa legale.

Fonte: http://primavera-africana.blogautore.repubblica.it/?ref=HROBA-1


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