Università cadaverica

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Chi ha trascorso una buona parte della sua vita nell’università italiana insegnando al Nord ,a Milano e poi a Torino e a Roma alla Sapienza guarda con sgomento allo stato quasi cadaverico che caratterizza lo stato attuale che caratterizza i nostri atenei. Certo, qualcuno o forse più d’uno si consola riflettendo sul fatto che in una società che ha declinato in ogni campo nell’ultimo trentennio non c’è da stupirsi del fatto che la cosa avviene nelle scuole come nelle università.

Ma a me la cosa non mi consola tanto per più di una ragione. La prima è che in quelle scuole e in quelle università di cui parliamo ci sono in altri tempi docenti e studenti che hanno compiuto cose egregie per il nostro paese e a volte hanno costituito il centro e il punto di partenza per imprese o prove che hanno risolto problemi fino a quel momento irrisolti o irrisolvibili ed hanno lottato con tutte le proprie forze che affrontare e magari risolvere questioni che erano decisive per il destino degli italiani o comunque di una parte considerevole di loro o magari di quelle nuove generazioni dalle quali noi attendiamo con speranze intuizioni e indicazioni per superare la crisi che attanaglia il Paese da troppi anni e che nessuno dei governi che si sono succeduti negli ultimi decenni sono riusciti non dico a superare ma almeno a comprendere fino in fondo prendendo le decisioni necessarie per andare avanti.  Ora questi appaiono come ricordi lontani, come sogni di un tempo  inesorabilmente passato e si ha la sensazione che possa passare qualche anno e poi sia inevitabile decretare che non c’è nulla da fare, che bisogna prendere atto che non c’è nulla da fare e che è il caso di chiudere quel capitolo e aprirne un altro di cui peraltro nulla si conosce e si può prevedere.

Qualcuno ritiene che l’università italiana la stiano uccidendo i “maestrini del pensiero” ,gli “zelanti esecutori di una sorveglianza totale” che non risponde alle esigenze della ricerca ma “soltanto al desiderio del ceto politico di controllare e di imbrigliare quella residuale libertà di pensiero che ha nella università la sua ultima roccaforte e per il quale serve di più una sagra del carciofo piuttosto che una ricerca sulle scuole neoplatoniche del Medioevo o anche di altre età vicine o lontane dall’evo contemporaneo.  Vero è che la questione dell’università ha con intervalli più o meno lunghi negli ultimi 30-40 anni attirato l’attenzione di convegni e di editori ma che i problemi non sono mai stati affrontati in maniera adeguata dai gruppi dirigenti delle principali forze politiche di governo o di opposizione. Quanto all’atteggiamento della pubblica opinione, i media parlano dell’università in maniera sporadica e spesso poco informata e sono a loro volta lo specchio del discredito di cui soffrono nel nostro paese, soprattutto negli ultimi venti- trent’anni, tutte le istituzioni pubbliche, incluse quelle dell’istruzione media e superiore. Sono, tutti questi ,dati con cui bisogna fare i conti per comprendere la pratica non applicazione di leggi che pure avrebbero dovuto cambiare, almeno in parte, il volto dell’istruzione universitaria.

Quanto al coordinamento e alla valutazione della didattica si tratta di elementi importanti per una moderna università che voglia rispondere alle crescenti esigenze di studenti a volte meno preparati di una volta ma la pratica dimostra che pochi docenti  vogliono dedicare al lavoro universitario richiesto per ottenere risultati positivi a media e a lunga scadenza, che la difficoltà di elaborare criteri oggettivi per la valutazione ha sempre creato e continua a creare problemi enormi e quasi irrisolvibili per chi deve affrontarli. E  la tendenza a rinviare i problemi o ad adottare soluzioni insoddisfacenti appaiono i comportamenti più spesso adottati almeno nel nostro paese.         


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