L’articolo 21 di Enrico Berlinguer

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Enrico Berlinguer non sembrava empatico con il sistema dei media. Timido, legato ai tempi lunghi e lenti, centrato sulla parola scritta, il segretario del Partito comunista italiano poteva apparire la persona più antimediatica della e nella sfera pubblica. Nel suo tempo, ma non solo. In parte è così. Un sistema dell’informazione ancora intriso di culture analogiche, del resto, permetteva di fare dell’assenza una forma diversa di presenza, essendo l’attesa della parola del leader (brutto termine per Berlinguer) già una presenza implicita. La canonica conferenza stampa della Tribuna politica diretta da Jader Jacobelli era un po’ l’epifania del discorso. In verità, pur in confini tanto ristretti e checché se ne sia detto e scritto, il grande e compianto dirigente del Pci “bucava” il video. Eccome. Creava un immediato rapporto affettivo, essendo il suo corpo esile ricco di sequenze di comunicazione informale. E il volto, con le sue rughe e i suoi lievi movimenti, accompagnava perfettamente la parte esplicita del discorso: moralità, austerità come occasione di cambiamento, pace e legame con i settori deboli della società, il (meno condivisibile) compromesso storico. Insomma, le rare interviste e le sporadiche apparizioni in video erano le matrici di un corpo mediatico che avvolgeva con discrezione Enrico Berlinguer.

Non sembri blasfemo, ma è possibile affermare che proprio il mix tra parole, corpo e voce rappresentasse di per sé un messaggio fortissimo. Si riguardi l’interessantissima e riuscita intervista a “Mixer” condotta da Minoli. Pur controcorrente rispetto all’incipiente –in Italia- mediatizzazione della politica, che iniziò proprio negli anni settanta. Così, sempre si oppose alla degenerazione dei partiti, come ben spiegò nella famosissima intervista rilasciata nel 1981 ad Eugenio Scalfari. Cosa avrebbe detto oggi, a fronte della conclusione abnorme, iperbolica, di quella parabola. Però, c’è un meno chiarito risvolto della medaglia.

Esiste un brillantissimo Berlinguer da riprendere e sul quale riflettere, per infrangere una certa idea chiusa e qualche volte banale sul suo rapporto con i media, la cultura e la comunicazione.
Innanzitutto, il famoso intervento al teatro Eliseo di Roma, nel gennaio del 1977, nelle conclusioni del convegno sulla cultura e sugli intellettuali. E’ passato come il discorso sull’austerità, certo. Non solo. In quella circostanza, forse per la prima volta, l’universo dei saperi non era evocato come creativa ma marginale sovrastruttura, o come sommatoria di bravi compagni di strada, bensì come protagonista diretto del e nel cambiamento. Un rovesciamento decisivo rispetto all’antica impostazione togliattiana del “rapporto con” (strumentale o no) artisti e intellettuali. E non per caso -lo ricorda Ettore Scola- ai funerali partecipò una grandissima parte di quel mondo. Ancora, in una riuscita conferenza sulla scienza del 1983, Berlinguer parlò con estrema apertura delle culture scientifiche, essenziali per il progresso. Anche qui, un ribaltamento rispetto all’impostazione prevalentemente umanistica del comunismo italiano.

Infine, il passaggio di maggior rilievo, di assoluta attualità. Si tratta della bellissima intervista raccolta da Adornato per il supplemento pubblicato da l’Unità alla fine del 1983, in vista dell’inveramento sul calendario del notissimo “1984” di George Orwell. La si rilegga. Un Berlinguer tutt’altro che apocalittico, anzi aperto e incuriosito davvero dall’innovazione tecnologica. Che preveggenza: è quasi un sentiero di lettura per noi, dannati fruitori del percorso di guerra che corre tra l’occhio delle centrali dei servizi segreti statunitensi (e chissà quanti altri) e l’evoluzione dell’era digitale. Né apocalittici, né integrati (le polarità introdotte da Umberto Eco), ci ammoniva un pensatore coraggioso e fuori dal (suo) tempo. Un profeta. Anche per questo, dopo la tragica, ingiusta fine su quel palco di Padova, è diventato laicamente immortale.


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