Nel “comune interesse”

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“Un nemico del popolo” di H. Ibsen. Adattamento di Edoardo Erba Interpreti:  Franz Cantalupo,  Alessandro Cremona,  Stella Egitto,   Simonetta Graziano,  Renato Marchetti,  Antonio MiloE con la partecipazione di Lombardo Fornara  –regia di  Armando Pugliese. Roma, Sala Umberto

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Tu dici Heinrik Ibsen (1828-1906) e, per associazione mentale, pensi subito ai suoi drammi impetuosi, indefettibili, intransigenti e –soprattutto-‘spettrali’, ‘a fosche tinte’: non in ragione di vicende o intrighi drammaturgici, tortuosi, defatiganti, ma per quel tipico conflitto di anime, caratteri, ‘spleen’ della solitudine, della non-comunicabilità (tra persone, tra persone ed ambienti asettici) che spesso, dal freddo perenne della Norvegia si consuma sui ‘carboni ardenti’  della  fuga verso l’ignoto, di una ‘cupio dissolvi’ inarrestabile, la cui genesi e simbologia già attiene alla propedeutica filosofia (‘morte della speranza’) di Kierkegaard e Shopenhauer, ove il mondo è già ‘rappresentazione’  non è più imperativo categorico, morale (quindi idealizzabile, subliminale) come lo era stato sino all’egemonia kantiana.

Premesse, le nostre, che, nella loro aspra concretezza, riluttanza verso ogni forma di oppiacea consolazione introducono –per in verso giusto?- ad una delle sfaccettature meno note )e frequentate) del teatro epico-civile progettato da Ibsen sin dai tempi giovanili di “Catilina”- e che raggiunge il suo acme di asperità, lungimiranza, costante contemporaneitò nel pessimismo paradigmatico “Nemico del popolo”, datato 1883, ma già sensibile alle mille sfaccettare della corruzione, dell’umana fatuità (unita alla brama di denaro e vanagloria) che sono i tratti distintivi di ogni agglomerato ‘civico’ fondato sulla supremazia della connivenza, dell’arricchimento facile, dell’insorgente personaggio carismatico che –come accadeva tra gli

antichi antichi etruschi- aspira ad essere tetragono e lucumone di affari loschi ma ben redditizi. Di qui, l’esemplarità della vicenda narrata da “Nemico del popolo” ed ispirata ad un episodio realmente accaduto pochi anni prima che Ibsen vi si interessassse.

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Il medico di una piccola città nordica scopre che le terme pubbliche, glorificate come fonte di benessere e potere per il sindaco (suo fratello) e tutta la giunta comunale,  sono letteralmente  appestate da inquinanti scarichi montani (di conciatura delle pelli): qualcosa di simile a ciò che  accade oggi con i  giacimenti pestiferi di Casal di Principe, i pomodori rosso\vermiglio di ‘Gomorra’e l’infelice Campania della ‘terra dei fuochi’ (ma quante altre ‘imprese’ ammorbano altri territori…). Il medico riterrebbe  suo dovere fare un pubblico appello (alla cittadinanza che già assapora il benessere, la manna dal cielo, anzi dal sottosuolo)  per scongiurare il disastro ecologico-sanitario, ipotizzando a soluzione del problema la momentanea sospensione della stagione termale ed il ricorso (tutto in divenire, molto costoso) alla purificazione delle falde acquifere, che oggi definiremmo ‘sviluppo solidale e   sostenibile’.

Tutto inutile: sia da parte fratello, rappresentante degli azionisti di maggioranza (ed aspirante al ‘primato’ politico), sia del direttore (e dai ricattabili redattori) del  giornale locale, nessuno osa schierarsi  contro gli ‘opinion maker’  della piccola comunità, ciascuno opponendosi  alla rivelazione del ‘non rivelabile’, in quanto ‘tutti’ – per insano pragmatismo-  sarebbero parte lesa nella sterile disputa fra Davide e i troppi Sansone

Poco (o molto?) importa l’apposto epilogo ‘edificante’ che Ibsen decide di (o è indotto a) imprime a questo suo piccolo capolavoro di indignazione, pessimismo, nichilismo civico. Preso atto della realtà in quanto tale,   il dottore sceglierà di percorrere  l’unica strada a lui accessibile: invece di abbandonare la città al suo destino,  immagina che  la risposta migliore -al ‘guasto e al guano’- è la conoscenza ‘di là a venire’: istruire, aiutare  i giovani a meglio comprendere il letamaio di cui si rischia di essere cittadini operosi ma passivi. In un certo senso, quindi, il finale può dirsi ‘aperto’.

Non invece il provvido, imprevedibile, funzionale adattamento che Erba e Pugliese operano sulla stesura, filologicamente granitica, del grande drammaturgo naturalista. Effettuando una sorta di azzardo (che i puristi definirebbero ‘tradimento’) sul tessuto connettivo di “Nemico del popolo”: ovvero attualizzarne, modernizzarne, snellirne con moduli di tragicommedia, mondata di melodramma e scene- madri, la crudezza, la sconsolata sedimentazione del suo assunto. Volgendo quindi la ‘tragedia’ crepuscolare (tipica di una terra dove il sole ‘non sorge’ ma nemmeno declina) in una intrepido, vivace, persino umoristico ‘vaudeville noir’ (gogoliano, di anime morte), rianimato da molto ésprit proveniente da quel particolare tipo di  commedia francese (Demy, Molinarò, Veber) che riesce a ‘capovolgere’ in dissacrazione, in opera-comique (e grazie alla lezione di Guy De Maupassant) ciò che, per sua (arcaica) natura preluderebbe all’efferatezza e alla resa di conti sangue latino.

L’esito dello spettacolo è parzialmente avvincente, ma indubbiamente dotato di una suo coerenza e ricerca di alternative al desueto naturalismo. Approdo cui concorrono sia la scarsa invadenza  di un’ambientazione dai colori pacati e dall’arredamento castigato, sia la misurata, misturata, colorita (ma non coloristica) collaborazione degli interpreti (Tognazzi, Armando, il veterano Fornara,   e via via tutti gli altri), verso i quali –a fine rappresentazione- è tributato un applauso più che meritato. Soddisfatto e solidale.


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