Giornalismo sotto attacco in Italia

“La vita è un treno”. Da un’idea di Antonello Caporale, regia di Enzo Monteleone

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I racconti estivi sulle tratte delle ferrovie abbandonate sono stati scritti e pubblicati la scorsa estate sul Fatto Quotidiano dal giornalista Antonello Caporale, che ha attraversato l’Italia in un viaggio a tappe, accompagnato dal regista Enzo Monteleone. La docu-serie, strutturata in 4 puntate, viene pubblicata sul sito de ilfattoquotidiano.it ogni mercoledì a partire da mercoledì 8 gennaio 2014.

La vita è un treno è insieme un viaggio sentimentale e un atto di denuncia civile. Un viaggio lungo tremila chilometri seguendo la traccia della ruggine dei binari delle tratte ferroviarie dismesse. Il treno non è soltanto vettore ma connettore di comunità, bruco che attraversa le pianure, buca le montagne, raggiunge i paesi. Da Segesta, in Sicilia, a Dogliani in Piemonte, da Fano a Capranica, o lungo la cresta del Reventino in Calabria: sono centinaia le tratte chiuse al traffico, le stazioni deserte, luoghi oggi morti che raccontano una vita che fu.
E’ una grande e potente metafora dell’Italia mandata in soffitta, dimenticata, sotterrata dai ricordi, persa alla vista. Di qua corrono a trecento all’ora, di là niente.
Di qua investimenti per miliardi, di là solo dismissioni, chiusure anticipate, seggiolini rotti. Un Paese doppio che rinuncia ad avere memoria di sé, sceglie l’asfalto, i viadotti, le opere faraoniche infinite, accarezza ogni scempio come figlio e legittima ogni spreco. E giudica solo il treno come un costo insostenibile, come se il vagone fosse il luogo malefico dove le virtù si trasformano in vizi, i soldi in prebende, gli appalti in clientele.
Si perde persino il senso della geografia. Le stazione abbandonate sono testimoni mute di una distanza che aumenta tra la campagna e la città, la cifra di una maestosa dismissione civile e culturale.
Il viaggio, riepilogato in quattro puntate, aiuta a capire e forse anche a maledire, a commuoversi o soltanto a ricordare la misura delle responsabilità della classe dirigente.
Quel che c’era e si è distrutto, quel che si poteva conservare e si è invece lasciato alla ruggine, il colore delle nostre colpe.


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