Una marcia di Natale per amnistia e indulto, perché lo Stato esca dalla flagranza di reato in cui è precipitato da anni

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Cos’hanno in comune don Antonio Mazzi, fondatore delle comunità Exodus, e don Ettore Cannavera, una vita nelle carceri come cappellano; il segretario della UIL Penitenziaria Eugenio Sarno, e Luigi Manconi, presidente Commissione Diritti Umani del Senato; Sandro Gozi, presidente della delegazione italiana presso Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, e il presidente dell’Unione delle Camere Penali Valerio Spigarelli; Luigi Amicone, direttore di “Tempi”, rivista legata a Comunione e Liberazione, ed Enrico Sbriglia, provveditore regionale amministrazione penitenziaria del Piemonte; Il segretario del Sindacato Direttori Penitenziari Rosario Martinelli e il senatore Franco Marini, il segretario dell’Organizzazione Autonoma Polizia Penitenziaria Leo Beneduce; Antonio Savino, Segretario del Sindacato Autonomo Lavoratori Polizia penitenziaria e suor Fabiola Catalano, volontaria del Carcere Velletri; don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele e il senatore Felice Casson, vicepresidente della commissione Giustizia; Elisabetta Laganà, presidente Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e il sindaco di Roma Ignazio Marino; il vice-presidente della Camera Roberto Giachetti e Fabrizio Fratini della CGIL Funzione Pubblica; Gian Mario Gillio, direttore di “Confronti” e Mario Marazziti di Sant’Egidio…(potrei continuare a lungo, con l’elenco)?

Hanno in comune che hanno deciso di promuovere, aderire, partecipare alla III Marcia per l’amnistia, la giustizia, la libertà del 25 dicembre prossimo. La partenza è fissata da San Pietro, per arrivare davanti la sede del governo a palazzo Chigi; durante la marcia saranno fatte brevi soste simboliche davanti al carcere di Regina Coeli, al ministero della Giustizia, al Senato e alla Camera dei Deputati. Perché una simile iniziativa? Tutti noi ricordiamo l’accorato e pressante messaggio alle Camere del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (il primo e unico dei suoi due mandati): “Non ci sono più alibi per fare ciò che è obbligo fare, se vogliamo che il nostro Paese interrompa la flagranza criminale in cui si trova da troppo tempo per le condizioni inumane e degradanti nelle nostre carceri e per le condizioni della nostra Giustizia, massacrata dall’insopportabile zavorra della sua decennale “irragionevole durata dei processi”.

Era l’8 ottobre scorso. Il presidente, dopo aver ricordato tutta una serie di misure legislative e amministrative da perseguire congiuntamente, scriveva: “Tutti i citati interventi – certamente condivisibili e di cui ritengo auspicabile la rapida definizione – appaiono parziali, in quanto inciderebbero verosimilmente pro futuro e non consentirebbero di raggiungere nei tempi dovuti il traguardo tassativamente prescritto dalla Corte europea.  Ritengo perciò necessario intervenire nell’immediato (il termine fissato dalla sentenza “Torreggiani” scadrà, come già sottolineato, il 28 maggio 2014) con il ricorso a “rimedi straordinari”…”.
Successivamente, il 22 novembre scorso, la Corte Costituzionale, nel depositare le motivazioni della sentenza n. 279/2013, riferendosi alla sentenza Torreggiani e alla scadenza del 28 maggio 2014 dalla Corte EDU, scriveva: “…È da considerare però che un intervento combinato sui sistemi penale, processuale e dell’ordinamento penitenziario richiede del tempo mentre l’attuale situazione non può protrarsi ulteriormente e fa apparire necessaria la sollecita introduzione di misure specificamente mirate a farla cessare…”.

Insomma: non c’è più tempo, come ci avvertono le massime autorità istituzionali: un provvedimento di amnistia e di indulto è strada obbligata se si vogliono interrompere le torture di Stato in carcere e con la Giustizia negata, perché troppo “irragionevolmente” lunga.
Perché da San Pietro, dalla sponda destra del Tevere? “«Anche Dio è un carcerato, non rimane fuori dalla cella…è dentro con loro, anche lui è un carcerato”, non si stanca di dire papa Francesco nei suoi incontri; ma soprattutto perché proprio all’inizio del suo mandato ha fatto due gesti concreti: ha abolito l’ergastolo all’interno dello Stato Vaticano, e introdotto nell’ordinamento il reato di tortura, cosa che in Italia ancora non si è fatta a distanza di venti anni dalla firma della Convenzione ONU. Perché la Marcia si conclude davanti a Palazzo Chigi? Perché il Governo è l’interlocutore principale dell’iniziativa. E’ per aiutarlo a svolgere un ruolo di impulso, attivo, nei confronti di un Parlamento, che sembra aver lasciato cadere nel vuoto il messaggio di Napolitano. D’altra parte, a giugno, era stata proprio la guardasigilli Cancellieri a dire: “L’amnistia è imperativo categorico morale. Dobbiamo rispettare la Costituzione”.

Non si tratta solo della condizione delle carceri, nelle quali 65.000 detenuti sono ammassati in celle che potrebbero ospitarne al massimo 37.000, ma della vita di milioni di cittadini italiani e delle loro famiglie, che sono o direttamente parti in causa, o comunque coinvolti negli attuali oltre 10 milioni di procedimenti penali e civili pendenti nei nostri tribunali, molti dei quali destinati a risolversi dopo troppi anni, altri cancellati dalla prescrizioni; in media sono infatti 500 ogni giorno le prescrizioni di reati che maturano nel silenzio: un’amnistia nascosta di cui nessuno si assume la responsabilità politica. Per far fronte a questa grave situazione, quale strumento tecnico e costituzionalmente previsto, se non quello di un’amnistia, che riduca drasticamente il carico processuale dell’amministrazione della Giustizia, perché sia sollevata dal peso immane di un arretrato  comunque impossibile da smaltire, e possa così tornare al più presto a operare con efficienza? Amnistia come premessa e traino di quella Riforma della Giustizia da anni invocata e mai realizzata. Amnistia accompagnata da un indulto, per ripristinare la legalità nelle nostre carceri ponendo fine alla tortura dei trattamenti inumani e degradanti. Perché non è credibile uno Stato che viola costantemente le sue leggi, ed è – come dicono le corti di giustizia d’Europa – in flagranza di reato.
Ma di tutto questo, come mai e perché non si discute, non si dibatte, non ci si confronta?


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