2013, l’anno del disincanto

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C’è un’immagine e un luogo che riassume meglio di qualunque altro il senso di quest’anno che, finalmente, sta per concludersi: è Lampedusa, l’isola del sindaco Giusi Nicolini che noi di Articolo 21 abbiamo premiato qualche settimana fa per il suo costante impegno in difesa dei diritti umani. È lì, infatti, che si sono consumati i drammi, le speranze, l’immensità e la miseria morale di questo 2013 che passerà alla storia come uno degli anni più tristi e devastanti che si ricordino dal dopoguerra in poi. Perché è lì che ci siamo commossi, lo scorso 8 luglio, di fronte alle domande di papa Francesco, al suo richiamo a un’umanità cinica e malvagia, incapace di prendersi a cuore le esigenze e i drammi del prossimo, ed è lì che abbiamo riflettuto senza parole sulla “globalizzazione dell’indifferenza”, sulla nostra crudeltà, sul nostro voltarci continuamente dall’altra parte di fronte a tragedie che solo la nostra insipienza e la nostra pochezza morale possono indurci a credere che non ci riguardino da vicino. Tuttavia, è sempre lì, in quel lembo di terra a metà fra l’Europa e l’Africa, che lo scorso 3 ottobre abbiamo assistito a uno dei più grandi disastri della storia dell’immigrazione, con l’incendio e l’affondamento di un peschereccio al largo delle coste lampedusane che è costato la morte a oltre trecento disperati in fuga da un Continente in fiamme.

Solo allora, di fronte all’impossibilità di rimanere in silenzio, l’Unione Europea si è ricordata di quest’isola costantemente al centro dell’emergenza, quotidianamente costretta a far fronte alla necessità di accogliere e sfamare centinaia di migranti in fuga dalla miseria e dalla guerra, perennemente soggetta agli insulti, allo scherno e alla denigrazione del populista, del demagogo o del cialtrone di turno. E solo allora anche la politica italiana si è resa conto che la Bossi-Fini è una legge disumana e anti-storica, priva di qualunque ancoraggio alla realtà dell’Europa unita del Ventunesimo secolo e figlia di un localismo provinciale da piccola patria chiusa in se stessa che speriamo si sia concluso con il passaggio all’opposizione delle forze che hanno dominato la nostra scena politica nell’ultimo decennio.

Purtroppo, però, come temevamo, anche la commozione, le lacrime e il dolore sono durate il tempo delle riprese delle telecamere e dei flash dei fotografi, per poi ripiombare nell’abiezione delle scene cui abbiamo assistito qualche giorno fa, con i migranti sottoposti a una sorta di doccia all’aperto in funzione anti-scabbia, come se bastasse un getto d’acqua gelida nel freddo di dicembre per scacciare le malattie da un ambiente promiscuo, disumano, nel quale è legittimo porsi la stessa domanda che si pose Primo Levi di ritorno da Auschwitz: se questo è un uomo?

Perché questo è stato il 2013: un anno senza speranza, senza illusioni, senza dignità, in cui le prospettive di ciascuno di noi si sono accorciate, al pari dei nostri orizzonti, e i sogni che abbiamo coltivato per mesi, in alcuni casi per anni, si sono infranti tra febbraio e aprile, tra quelle maledette urne dalle quali non è uscito nessun vincitore e quella settimana da tregenda nella quale abbiamo bruciato tutta la storia, le tradizioni, le radici culturali e morali della sinistra.

È stato, dunque, l’anno delle larghe intese atto secondo: non volute da nessuno, a differenza delle prime, ma quanto meno guidate da uno di noi, da una persona più attenta del professor Monti alle esigenze e ai drammi degli ultimi, anche se nemmeno Letta, come risulta evidente dal complesso della Legge di Stabilità approvata in questi giorni, possiede la bacchetta magica né, per dirla con parole sue, può assumere le sembianze di Babbo Natale ed elargire risorse che, purtroppo, non ci sono.

Sul piano internazionale, invece, come ricordavamo all’inizio, è stato l’anno delle storiche dimissioni di un Papa e dell’elezione di un Pontefice venuto “dalla fine del mondo” che in pochi mesi ha conquistato tutti con la sua umiltà, la sua semplicità, la sua gentilezza ma, soprattutto, con la fermezza e la portata rivoluzionaria delle sue idee: un progressismo ecclesiastico che non si vedeva dai tempi di Paolo VI e che riavvicina la Chiesa al suo messaggio originario di pace e di speranza, di povertà e di rifiuto totale di un modello di sviluppo, quello liberista, che è in realtà un modello di regressione che deprime e seppellisce il concetto stesso di umanità.

Ed è stato anche l’anno della barbarie siriana e del ritorno di Michelle Bachelet in Cile, del nuovo insediamento di Obama alla Casa Bianca e della terza, scontata affermazione della Merkel in Germania, a dimostrazione che la sinistra vince solo quando ha il coraggio di essere se stessa, di utilizzare le proprie parole e di mettere in discussione il suddetto modello liberista che tanti lutti e tanta disperazione ha arrecato all’intero pianeta, non quando si rivela subalterna, timida, debole, priva di un messaggio autonomo e dell’audacia di rivendicare la propria netta alterità rispetto alle proposte e alle parole d’ordine degli avversari. Obama ha vinto perché con lui l’America ha definitivamente voltato pagina rispetto alla deregulation sfrenata che ha caratterizzato le politiche e la condotta economica dei suoi predecessori; Steinbrück ha perso malamente perché i suoi concetti si sono rivelati, nella maggior parte dei casi, ancora più a destra del programma della Merkel, oltre ad essere stato il ministro delle Finanze del primo governo della Cancelliera e colui che nel 2009 propose l’assurdità dell’inserimento in Costituzione del pareggio di bilancio.

Infine, tornando alle questioni strettamente interne, è stato l’anno del ricambio generazionale e dell’ascesa di nuovi protagonisti: da Renzi a Salvini; senza dimenticare Alfano che ha approfittato dell’improvvisa debolezza di un Berlusconi oramai extraparlamentare per tentare di dar vita a quel centrodestra moderno ed europeo che il nostro Paese attende da vent’anni.

Sarà meglio? Sarà peggio? Saranno in grado questi ragazzi, che hanno iniziato a far politica quando il Muro di Berlino si era ormai sbriciolato sotto i colpi di piccone e con esso erano crollate le grandi ideologie del Novecento, di portare a compimento l’interminabile transizione italiana apertasi nel ’94 e non ancora conclusa?

A nostro giudizio, riusciranno nei loro intenti solo se avranno il coraggio di seguire l’esempio del presidente uruguaiano José Mujica, il cui Paese è stato dichiarato “paese dell’anno” dal settimanale inglese “The Economist”: “Appartengo a un piccolo paese, ricco di risorse naturali per vivere. Nel mio paese ci sono 3 milioni di abitanti o poco più, 3 milioni e 200 mila, però ci sono 13 milioni delle migliori vacche al mondo e 8-10 milioni di ovini stupendi. Il mio paese è esportatore di cibo, di latticini, di carne… è una pianura, quasi il 90% del suo territorio è utilizzabile. I miei compagni lavoratori lottarono molto per le 8 ore di lavoro e ora stanno ottenendo le 6 ore. Però chi ottiene le 6 ore ottiene due lavori pertanto lavora più di prima.

Perché? Perché deve pagare un mucchio di rate: il motorino che ha comprato, l’auto che ha comprato… e paga rate! E paga rate! E quando arriva a estinguere il debito è un vecchio reumatico come me, e la vita se ne va.

E uno si fa questa domanda: è questo il destino della vita umana? Queste cose sono molto elementari: lo sviluppo non può essere contro la felicità, dev’essere a favore della felicità umana, dell’amore, della Terra, delle relazioni umane, del prendersi cura dei figli, dell’avere amici, di avere ciò che è fondamentale.

Perché questo è il tesoro più importante che abbiamo. Quando lottiamo per l’ambiente, il primo elemento dell’ambiente si chiama: la felicità umana”. E il cerchio si chiude, confermando, se ancora ce ne fosse bisogno, che la sinistra riesce a essere forte e autorevole solo se ha il coraggio di ribellarsi all’abisso morale in cui siamo sprofondati e di indicare alla propria nazione e al mondo un modello di sviluppo equo e solidale che troppi, da tempo, hanno colpevolmente accantonato.


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