Le parole vuote di chi ha poco da dire

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Uno dei lasciti peggiori, e oggettivamente più pericolosi, del ventennio berlusconiano è proprio la scomparsa delle parole; o meglio, la loro totale perdita di significato. Ha ragione, dunque, Claudio Sardo quando afferma, in un magistrale articolo su “l’Unità”, che il leaderismo fine a se stesso da solo non basta, che la logica dell’“uomo solo al comando” è il male e il simbolo della degenerazione della nostra società e che “vincere vuol dire rompere i fattori di blocco della mobilità sociale, vuol dire avviare un nuovo sviluppo nel segno dell’equità, vuol dire restituire funzionalità democratica alle istituzioni”. Altrimenti, come scrive giustamente Sardo, rischiamo di consacrare la vittoria definitiva della “trentennale egemonia del liberismo anti-politico”, ossia di quel cancro culturale ed economico che ha squassato le società occidentali e condotto milioni di persone nel baratro di una crisi dalla quale oggi faticano a risollevarsi.

E non ci riusciranno, specie in Italia, se la classe politica, soprattutto a sinistra, non si renderà conto che non ha perso credibilità e consenso per  mancanza di leadership ma esattamente per il motivo opposto: perché negli ultimi venti-trent’anni abbiamo avuto solo capi e capetti, partiti personali e padronali, lotte intestine fra correnti e potentati locali, vere e proprie guerre per bande senz’anima e senza idee che hanno privato la politica del suo propellente fondamentale: una visione chiara della società e del futuro.

Chi siamo? Da dove veniamo? Dove vogliamo andare? Non sono solo i tre capisaldi del pensiero filosofico; sono anche, e soprattutto, le domande che deve porsi il Partito Democratico, alle prese con un Congresso difficile, cui è affidato il compito di ridefinire l’identità di un partito cui in questi anni è mancata proprio un’identità chiara e riconoscibile nonché la capacità di dire apertamente da che parte stesse in vicende cruciali come il destino dello stabilimento FIAT di Mirafiori e i referendum su acqua, nucleare e legittimo impedimento della primavera del 2011.

Perché è inutile girarci intorno: questo Congresso non avrà alcun senso, e sarà anzi controproducente, se non avremo il coraggio di dire la verità innanzitutto a noi stessi, e cioè che la “vittoria mutilata” di febbraio e il successo oltre ogni aspettativa del Movimento 5 Stelle non sono frutto del caso ma della nostra eccessiva timidezza, dei nostri silenzi, della nostra paura di essere noi stessi, di essere qualcosa, di rappresentare un segmento della società e farci carico delle sue esigenze e, più che mai, della nostra incapacità di contrastare adeguatamente i dogmi del liberismo, finendo anzi con l’assecondarli, col farcene interpreti, col convincerci che non siano la malattia e il male oscuro dell’umanità ma delle ricette da attuare ulteriormente “perché altrove hanno avuto successo”.

Peccato che quell’altrove non esista, che tutti i paesi che hanno sperimentato la dottrina socio-economica del duo Reagan-Thatcher, e poi la Terza via giddensiana, siano oggi sull’orlo del baratro, che si sia perso ogni senso di comunità, di solidarietà, di vicinanza umana ed affettiva, che stia trionfando ovunque la malvagità, la faziosità e la barbarie, in una spirale di crudeltà che si avvita su se stessa fino a sfociare in drammi epocali come quello della povera Grecia.

Come è un peccato che quest’idea dell’attore solitario, sempre al centro della scena avvolto da un fascio di luce, evidentemente figlia dell’ideologia thatcheriana secondo cui “la società non esiste”, sia molto utile per conquistare voti in un tessuto sociale sfibrato e immiserito ma non consenta poi di governare, per il semplice motivo che nessuno statista, nemmeno il migliore, può farcela da solo.

Senza dimenticare che anche la rete, meravigliosa invenzione e protagonista del nostro tempo, rischia di essere un incontro di solitudini senz’anima se i messaggi che si veicolano attraverso di essa non trovano poi una rappresentanza nelle istituzioni, nei partiti, nei sindacati, in poche parole in tutti quei corpi intermedi che qualcuno vorrebbe distruggere in nome di una “società liquida” e fondata sull’auto-rappresentazione dei singoli cittadini.

Ma non funziona, non può funzionare perché non tutti hanno le stesse opportunità, non tutti partono dallo stesso punto, non tutti possiedono la stessa ricchezza, non tutti hanno la stessa possibilità di far sentire la propria voce; e le istituzioni e i corpi intermedi, posti in relazione sinergica, nascono proprio per dare voce agli ultimi, per consentire a tutti di far valere i propri interessi, per riscattare la disperazione dei poveri, per difendere le loro istanze di giustizia, dignità e libertà dal bisogno.

Per non parlare poi del livello di istruzione, di cultura, di conoscenza: il vero, grande ascensore sociale che la nostra comunità ha perduto, smettendo di conseguenza di essere tale, trasformandosi in un drammatico insieme di speranze tradite, di sogni infranti, di prospettive annullate, di disillusione, di rabbia, di disincanto nei confronti del prossimo e della vita stessa.

Capite, adesso, dov’è che abbiamo perso? Abbiamo perso perché abbiamo smarrito noi stessi, la nostra anima, la nostra ragion d’essere; e continueremo a perdere, fino a scomparire definitivamente, se culleremo l’assurda illusione che basti qualche slogan e la recita di un singolo di fronte a una platea osannante per recuperare tutto ciò che abbiamo perduto in questo ventennio barbaro.

Allo stesso modo, perderanno anche gli altri: una destra priva di una classe dirigente in grado di emanciparsi da un padre-padrone che oramai non ha più nulla da dire, avendo già ampiamente fallito e mancato i traguardi che si era prefissato, e un movimento imbrigliato dai diktat di due personaggi che pensano di poter governare l’Italia stando comodamente seduti davanti allo schermo di un computer, tra una battuta e l’altra, un’accusa e l’altra, una sparata propagandistica e l’altra, mentre il Paese muore e l’orizzonte davanti ai nostri occhi si restringe.

Per dirla col professor Rodotà, siamo al “grado zero della politica”, con un Parlamento di fatto esautorato delle proprie funzioni e un governo paralizzato dai veti dell’ala oltranzista del PDL e reso ancora più debole dalla dissoluzione di un altro movimento nato intorno a una sola persona ma, evidentemente, privo di una narrazione convincente e di quella comunione d’intenti senza la quale nemmeno l’idea più brillante può trasformarsi in una proposta concreta.

È, dunque, con questo deserto che dovremo fare i conti nei prossimi mesi: un’immensa distesa di errori e occasioni perdute che rinfaccia a tutti noi, specialmente a sinistra, la pavidità con la quale troppe volte abbiamo deciso di non decidere.

In conclusione, ci auguriamo che a nessuno venga in mente di poter trasformare quel deserto in un’oasi a colpi di frasi fatte, luoghi comuni, proposte assurde e irrealizzabili, populismo e demagogia a piene mani e battutine da avanspettacolo di terza categoria perché in quel caso, parafrasando Tacito, lo avvisiamo fin da subito che quel deserto non si chiamerà mai pace.


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