La fine del tunnel e i rischi per l’Italia

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Alla fine, mettendosi una mano sul portafoglio (specie dopo aver osservato l’andamento del titolo Mediaset nei giorni in cui gli investitori erano scettici in merito all’instabilità dell’esecutivo, cui vanno aggiunte le non certo secondarie turbolenze legate ai venti di guerra che spirano sempre più impetuosi dal Medio Oriente), Berlusconi ha deciso che Letta, per il momento, può restare a Palazzo Chigi. Naturalmente, per garantire l’appoggio al governo, il Cavaliere ha preteso che il PD pagasse ancora una volta dazio, consentendo l’abolizione dell’IMU sulla prima casa anche per chi può permettersi di pagarla, a scapito del Paese e a vantaggio unicamente della sua propaganda elettorale permanente. Sì, perché come ha scritto con la consueta lucidità d’analisi Ilvo Diamanti su “la Repubblica”, Berlusconi è già in campagna elettorale, anche se non sa ancora di preciso quando si andrà a votare e pur avendo la certezza che, sia per motivi giudiziari sia per ragioni anagrafiche, stavolta non potrà essere lui il candidato premier del centrodestra.

Perché, dunque, si comporta così? Cosa lo induce a tener sempre alta la tensione? Innanzitutto, perdonatemi per il cinismo, ma credo che ci sia una certa goduria da parte sua nel vedere le difficoltà e gli imbarazzi in cui è costretto a dibattersi il PD per onorare la promessa fatta a Napolitano di sostenere lealmente il governo (per giunta guidato dal suo ex vice-segretario) e, al tempo stesso, mantenere un minimo di credibilità agli occhi di una base sempre più spaesata e inferocita. In secondo luogo, ma strettamente correlate, ci sono le sue questioni personali, a cominciare da quelle giudiziarie, che purtroppo si intrecciano drammaticamente con le sorti e l’autonomia dell’esecutivo, non essendo Alfano riuscito a emanciparsi dai diktat del suo capo e dalle sparate continue e fuori luogo dei falchi e delle pitonesse del suo partito. Infine, e non meno importante, c’è il futuro assetto politico del nostro Paese.

Pur sapendo di essere destinato a uscire di scena, o quanto meno a non poter ricoprire più lo stesso ruolo di prima, siamo certi che a Berlusconi non dispiacerebbe affatto la nascita di una sorta di Democrazia Cristiana in salsa “new age”: un progetto che Casini accarezza da anni, cui da tempo stanno lavorando sotterraneamente le cosiddette “colombe” del PDL, che non dispiacerebbe affatto a Monti, Montezemolo e a tutti i poteri forti, più o meno occulti, che condizionano la vita italiana e che, sempre a voler essere maligni, potrebbe non dispiacere poi così tanto nemmeno a quell’esigua minoranza del PD che si è sempre detta indisponibile a far parte di un partito marcatamente di sinistra, difendendo la propria vocazione ex democristiana e centrista.

Per questo, dopo aver concesso loro qualche intervista e qualche attimo di gloria, quando ha capito che la situazione rischiava di precipitare, il Cavaliere si è affrettato a placare i bollenti spiriti dei Verdini e delle Santanchè e ad affidarsi ai pontieri in grado di dialogare con l’ala meno intransigente del Partito Democratico.

Si dirà: in fondo, è meglio così. Come abbiamo sempre scritto, infatti, un’eventuale caduta del governo avrebbe avuto risvolti tragici per la Nazione, gettando le fasce sociali più deboli in una disperazione senza ritorno, impedendoci di agganciare le sia pur esili prospettive di ripresa che iniziano a profilarsi in Europa ed esponendoci addirittura a un possibile arrivo della Troika; il che, oltre al crollo della Borsa, all’impennata dello spread e al collasso definitivo dell’economia reale, con ogni probabilità, avrebbe comportato misure draconiane in stile Grecia come, ad esempio, il dimezzamento di stipendi e pensioni.

Da questo punto di vista, pertanto, possiamo stare relativamente tranquilli e andare avanti, proprio come sta cercando di fare con pazienza certosina Enrico Letta e quella vasta area del PD che, nell’interesse del Paese, si sta sobbarcando lo sforzo di sostenere un governo che potrebbe anche condurre a una scomposizione totale dell’attuale assetto politico e, sostengono i commentatori più feroci, addirittura alla scomparsa del Partito Democratico.

Accadrà tutto questo? Non lo sappiamo e ci auguriamo vivamente di no, che il Congresso del PD faccia chiarezza sui molti punti che devono essere chiariti dopo la sconcertante sequela di errori commessi negli ultimi mesi e che Letta sia il candidato premier del centrosinistra quando saremo chiamati nuovamente alle urne.

Il punto politico, tuttavia, è un altro: o il PD ritrova la grinta, il coraggio, l’entusiasmo e la capacità propositiva che in questo 2013 da tregenda sembra aver smarrito oppure, la prossima volta, non ci sarà un solo elettore disposto a perdonarci il fatto di aver governato per mesi, forse per anni, con un soggetto capace di tutto, persino di paralizzare continuamente l’azione di governo per ricordare agli “alleati” l’importanza delle proprie emergenze personali, e di aver di fatto attuato per intero il suo programma, compresi gli aspetti che in campagna elettorale avevamo giustamente definito populisti, demagogici e irrealizzabili, accantonando completamente il nostro, le idee sulle quali avevamo chiesto la fiducia degli elettori e le ragioni, storiche e culturali prima ancora che politiche, della nostra radicale diversità rispetto al centrodestra.

Se tutto questo non dovesse accadere, allora sì che il PD si condannerebbe all’estinzione, esponendo l’Italia al serio rischio di non avere più un partito degno di questo nome.


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