Il cielo sopra Palermo

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Palermo o cara, parafrasando Arbasino e la ‘sua’ Parigi del tempo mai più ritrovato.    Non  avrebbe infatti senso parlare di uno spettacolo come “Cuore di cactus”, sofferto, vigoroso monologo di Fausto Russo Alesi, su pagine di Antonio Calabrò, prescindendo dal suo specifico, ‘ristretto’ contesto socio-ambientale. Che non è(o non è solo), come si potrebbe (sbrigativamente) immaginare, la Sicilia del malaffare, dei racket, della criminalità organizzata; e degli investigatori (magistrati, commissari, giornalisti d’inchiesta)  che, sulle tracce di crimini e criminali, hanno perso  (o riannodato pure troppo) il bandolo della matassa, della speranza, del supporto statuale, senza di cui ‘si resta soli e si muore’.

Morendo, così e talvolta, anche la forza dei palermitani onesti di dare una sterzata alla empietà degli eventi.  Si diceva: Palermo. Non esiste ‘milieiu’, scenario, humus equivalente  per  il ‘diario in pubblico’ con cui Antonio Calabrò attraversa quarat’anni di storia infamante. Fossimo a Napoli, dovremmo chiedere lumi al grande Jo Marrazzo o al ‘giovane’ Saviano;  a Catania, l’unico interlocutore immaginabile continuerebbe a chiamarsi Pippo Fava (ed  il suo  soffocato  “Giornale del sud”).

Palermo, dunque: animale mitologico e dormiente (sempre in grado di destarsi  dal torpore ed esibire le sue ‘storie scellerate’) nutre infatti  una maggiore sventagliata di testimonianze, idealismi, personali scommesse enucleate per oltre trent’anni nella determinazione, nello stare in bilico, nel vivaio  giovanile e malpagato del quotidiano “L’Ora”: palestra (sotto la direzione di Nisticò) del miglior giornalismo d’indagine coltivato ai tempi in cui questo sventurato paese immaginava che democrazia e articolo21 (della Costituzione) fossero per sempre inattaccabili.

“Cuore di cactus”, nel perentorio, accaldato eloquio di Russo Alesi (attore nato con Stein e Ronconi, capace di coniugare   Brecht e Stanislawkij nello stesso istante,  con prodigioso baluginare di espressività e tonalità vocale)  si interroga, al dunque,  sul ‘perché’ di una stagione abortita, anzi ‘debellata’ dalle mafie; , sulle ragioni (comunque estreme, irreversibili) di  abbandonare Palermo  per cercare altrove una nuova consistenza di lavoro e di vita.  Riflessioni definitive ed   amare, attraversate dal tentativo di fare i conti con il proprio tempo, con l’impegno professionale e culturale, con il dramma  di chi va via  senza   rinnegare le proprie radici. Anzi, andandone dolorosamente fiero ed esponendo  le stimmate di una ‘bruciata’ giovinezza.

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Teatro civile nella sua più estensiva accezione, “Cuore di cactus”   narra   dunque( in misura asciutta, frugale, priva di rimembranze nostalgiche)  la storia di un lungo, stoico  esilio fortificato  da un meccanismo teatrale  tanto solido quanto delicato: scabro nella sua  scansione  lessicale e  di grande compostezza espressiva per quanto concerne l’impaginazione scenica.  Che, proponendosi in commistione fra ‘libro bianco’ (raccontato agli astanti) e ‘abbecedario teatrale’ (da sfruttare al massimo delle sue potenzialità didattiche),  si inerpica sul ‘dialogo’ di note e parole che interviene tra Russo Alesi e il pianista Giovanni Vitaletti.  Tutto funziona come a ritroso.  Le  immagini dei ricordi di Palermo planano  per semplice evocazione: la grande torre normanna,  il mare ludico, il paesaggio solare e ingannevole, il barocco che cade a pezzi, la Ucciria sempre la stessa. Raffigurati  senza disegni  o diapositive, con la sola forza (e suggestione) di affabulazione e musica.    Mentre le vecchie copie (anastatiche) del quotidiano che non c’è più ‘servono’ solo da  velo pietoso  per coprire carogne e  cadaveri, come se la storia-patria stentasse a distinguere i giusti dagli infami.

Poi la luce ‘vira’  di giallo quando  si racconta della   Sicilia classica e ammaliante, quella che ha ‘fatturato’ scrittori e poeti del grad-tour:  verso  una dimensione onirica che è, adesempio,  la Sicilia di  Goethe    (“chiave di ogni cosa”). Poi esaltata dalla   Palermo che (negli anni sessanta e settanta)   fu  accogliente  anfitrione di  avanguardie artistiche,   fermenti  intellettuale,  musicisti jazz e frenesie del Living. Espressione di un teatro che faceva a pezzi  anche le ‘anticonvenzioni’ di padre-Pirandello. Nemmeno il tempo di  gioirne, ed ecco riaffiorare il lungo, luttuoso  elenco dello scorno, della collettiva sconfitta:  Cassarà, Mattarella, Dalla Chiesa, Falcone,  Borsellino.  Caduti per una terra bella e scontrosa, arcigna e incantevole, dannata e accogliente.

Come una maga Circe che si protrae nei millenni, capovolgendosi da mito a dannazione.

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“Cuore di cactus” di Antonio Calabrò. Regia, drammaturgia, interpretazione di Fausto Russo Alesi. Al pianoforte: Giovanni Vitaletti. Assistente alla regia: Maria Pilar Perez Aspa. Roma, Teatro Piccolo Eliseo “Patroni Griffi”


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