“Muratori” e fantasmi di scena

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Teatro basico: di sforzi, sudore, tangibile fatica fisica. Ma anche di visionarietà onirica, surreale, quindi di pregio poetico. Teatro nella più esplicita delle sue accezioni quello che Paolo Triestino e Nicola Pistoia ‘costruiscono’ (con ironia, disillusione, artigianale intelletto) in “Muratori” di Edoardo Erba, regia di Massimo Venturiello, in tournée nazionale per l’ottavo anno e  da noi rintracciato in una ordinaria serata di sottovuoto-natalizio al Brancati di Catania, in cartellone per la stagione di prammatica.

Due manovali, clandestini nella notte,  sono in affanno per  occultare, chiudere con un  emblematico , sgangherato muraglione (che da Sartre a Berlino ha sempre significati traumatici) il triste palcoscenico di un teatro in disuso. Mattoni trasportati a spalla, calcinacci che imbiancano il viso, cazzuole e  impasti grigiastri dimostrano che non c’è nulla da fingere. Dall’idioma e dalle allusioni si capisce che l’impresa accade a Roma, e il perimetro, un tempo teatrale,  è stato  ceduto ad un  supermercato per l’ampliamento dei magazzini
La fretta di concludere, il timore di essere scoperti dalla vigilanza notturna sono, in questo caso, pessime consigliere, dando luogo ad una sorta di concitato dialogo e di interpersonali rivalse che narrano, in  filigrana, di sogni, amarezze, aspettative, abbrutimenti, di chi identifica la sua stessa persona con quel principio di reificazione (valore d’uso e di scambio) che accompagna la condizione del lavoro al compimento epocale delle sua dismissione di identità. Di stima verso  il proprio ruolo , commisurato al mero ristorno della quantificazione monetaria: nuda e cruda, ‘pochi, maledetti e subito’, guardinghi come ladri di se stessi.   Va bene,  è solo un’osservazione marginale, nessun rischio di sermone sociologico o pasoliniane elegie del sottoproletariato sotterrato.

Alla esasperata concretezza dell’azione condotta  dai due muratori si contrappone infatti (ed è qui che la commedia si impenna, si fa intrigante)  il misterioso andirivieni  di una aristocratica, irreale  figura femminile, ‘prigioniera’ del teatro come il vecchio attore del “Canto del cigno” (di Cechov), abbandonato in sottopalco come oggetto  smarrito perché non più utile.

Ci si chiede se i muratori e lo ‘spettro di donna’ (che scopriremo essere la damigella Giulia del dramma di Strindberg) non siano “due mondi diversi, due dimensioni incomprensibili che un interminabile muro vorrebbe tenere separate” Annesso e mai concesso che sia sufficiente erigere qualcosa  per metterci  al riparo dalle nostre (esilissime) diversità?
A sostegno di tali (ineludibili) interrogativi, direi che le  scene di Francesco Montanaro, i costumi di Sandra Cardini,  il disegno Luci di Marco Laudano (su musiche di Ennio Rega) abbiano un ruolo fondamentale ed espressivamente comprimario nell’ambito di uno spettacolo che, non a caso, sembra saldare le ‘pratiche basse’ e quelle ‘più in alto’ di un unicum teatrale dove le ‘frontiere’ del gusto e del giudizio non sono intrinseche (al teatro stesso), ma sovrastrutturali, quindi  ideologiche (in senso lato) da parte di chi ne fruisce.
Come infatti si dimostra nel finale, quando la ‘forza lavoro’ e ‘l’eroina di scena’ (che si è trasformata in ‘fantasma d’amore’ anche in virtù del fascino trepidante e travolgente di Lenni Lippi) decidono di ‘convolare’ verso una dimensione arcana, liberatoria, insubordinata del ‘farsi ‘ teatro, per sempre,  oltre lo sfondamento della ‘quarta parete’, e di quella retrostante. Dispersi e felici, con un salto nel vuoto, a memoria di chi l’ha già abiurata.


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