Risolleviamo una generazione perduta

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di Roberto Bertoni
Piermario Morosini, il giovane calciatore del Livorno che sabato scorso si è accasciato sul terreno di gioco dell’“Adriatico” di Pescara, è solo l’ultima vittima di uno sport ormai malato e bisognoso di riscoprire i valori morali che lo hanno reso grande e popolare.
Tuttavia, sarebbe un grave errore confinare la tragica morte di questo ragazzo nel mondo del calcio perché lo stesso giorno se ne è andata anche la pallavolista Veronica Gomez, stroncata a soli ventisette anni da un arresto respiratorio. E poche settimane fa la stessa sorte era toccata ad un altro asso della pallavolo: Vigor Bovolenta, vittima di un malore durante un incontro tra la Lube Macerata e lo Yoga Forlì.

Senza dimenticare il dramma del camerunense Marc Vivian Foe e quello di Antonio Puerta del Siviglia: ragazzi nel fiore degli anni, vittime di un ingranaggio malato e pericoloso che non ha alcun rispetto per la vita umana e per i diritti dei lavoratori.

Non c’è dubbio, infatti, che queste morti a catena, su un campo di calcio o di volley, durante un’azione o all’improvviso, debbano essere considerate a tutti gli effetti morti sul lavoro, al pari di quelle degli operai che cadono dalle impalcature o rimangono schiacciati sotto una pressa a causa di un errore fatale, spesso dovuto alla stanchezza per dei turni massacranti.
Mi auguro che a nessuno venga in mente di ricordare la discrepanza tra il reddito di un calciatore e quello di un operaio, perché sarebbe un insulto alla memoria, un’offesa alla dignità delle persone ma, soprattutto, un avvitarsi nel perverso schema che ci ha condotto fin qui: fino a considerare la vita degli altri una merce di cui possiamo disporre a piacimento, fino a considerare il lavoro una forma implicita di costrizione anziché la massima promozione sociale di una persona.

Ho ancora in mente le immagini di Ronaldo durante la Finalissima di Saint-Denis, a Parigi: era il 12 luglio 1998 e pare che, poche ore prima di scendere in campo, l’allora fuoriclasse nerazzurro fosse stato colpito da un malore o qualcosa di simile, al punto che per tutta la partita fu irriconoscibile, col volto segnato e atteggiamento fiacco e indolente che lasciò sgomenti milioni di spettatori.

Fino a quel giorno, per noi Ronaldo era il “Fenomeno”: un mito imprendibile, dalla progressione irrefrenabile, capace di saltare gli avversari come se niente fosse e di vincere da solo, anche quando la squadra non lo seguiva o sembrava addirittura assente. Poi l’incantesimo si è spezzato e, da quel momento, sono cominciati i guai: infortuni uno dietro l’altro, chili in eccesso, prestazioni deludenti, qualche sprazzo di classe (come ai Mondiali nippo-coreani vinti dal Brasile) e qualche giocata d’autore, ma la magia ormai non esisteva più.

Ed è proprio questa la vera, atroce sconfitta della nostra generazione: una generazione che Antonio Scurati ha definito su “La Stampa” “perduta alla politica” e io mi permetto di definire, forse, perduta alla vita.

Non si tratta di pessimismo, non c’entra nulla: è una considerazione che mi costa molto sul piano umano e psicologico, ma faccio sinceramente fatica a valutare in maniera diversa un declino che ha trasformato gli esseri umani in oggetti e i calciatori nei moderni “circenses”, costretti a giocare a qualunque ora del giorno e della notte, con qualunque tempo, compresi gelo e neve, soltanto per soddisfare la voracità dei pubblicitari e delle televisioni a pagamento.

Sono certo che tutte le morti cui abbiamo assistito in questi anni non siano state figlie del caso e della sfortuna ma di un cuore che non ce l’ha fatta a sopportare lo sforzo, di un fisico troppo fragile per resistere al continuo stress cui sono sottoposti questi ragazzi fin dalla più tenera età.

Fatto sta che non possiamo, non dobbiamo rassegnarci a questo degrado, a questa società barbara e cannibale, a questo sport che ha perso completamente la spontaneità di un tempo, a questo continuo giro di soldi (tanti, troppi soldi) che ha avvelenato ogni ambito del vivere civile, arrivando al punto clamoroso di calciatori che scendono in campo consapevoli di dover ingannare il pubblico che magari ha sacrificato una cena fuori, un viaggio, una domenica in famiglia per andarli a vedere.

È la disillusione, è l’indifferenza, è il continuo e asfissiante disincanto nei confronti di tutto e di tutti il cancro di quest’epoca indefinita, in cui non esistono più né dubbi né certezze, né sogni né prospettive, in cui solo di fronte all’orrore di un ragazzo di venticinque anni immobile sul prato ci si ricorda che si gioca troppo, che quest’iper-frenesia non è sostenibile a nessun livello, che lo spettacolo non deve sempre per forza andare avanti, che occorre fermarsi, tornare a riflettere, a pensare, a progettare.

La mia piccola utopia, che rimarrà tale, è che questa giornata di campionato, giustamente sospesa, non venga mai recuperata, almeno in Serie A dove non l’ha giocata nessuno. Vorrei che rimanesse aperta questa voragine, che non fosse colmata con altra ipocrisia, col solito minuto di silenzio, con quelle commemorazioni di routine che mettono un’indicibile tristezza.

Non accadrà. A breve si tornerà in campo e quella giornata sarà regolarmente recuperata mercoledì 25 aprile. Almeno, trattandosi della Festa della Liberazione, sarei felice se qualcuno proponesse un piccolo elenco di tutte le cose negative delle quali dovremmo liberarci in questo sport, che ben riflette gli affanni del Paese: dai facinorosi alle scommesse clandestine, dal doping alla corruzione, che non è solo economica ma soprattutto morale.
Dubito che accadrà anche questo, perché probabilmente la morte del povero Morosini sarà archiviata come “tragica fatalità” e presto svanirà nell’oblio.

Sono grato ai numerosi club stranieri che hanno deciso di rendergli omaggio, al Livorno che ha scelto di ritirare il suo numero di maglia, ai tifosi di tutta Italia – e non solo – che per una volta hanno dimostrato di avere un’anima, a differenza di certi dirigenti che non hanno trovato di meglio che accapigliarsi sul calendario.

Sarebbe bello se da qualche parte venisse aperta una scuola calcio per ragazzi disabili e venisse dedicata alla memoria di Piermario.
Ma, più d’ogni altra cosa, sarebbe bello se il mondo dello sport riscoprisse la sua funzione e recuperasse la sua dimensione spensierata, i suoi sogni da oratorio, il suo sguardo ingenuo, la sua originaria pulizia.

Non credo che avverrà, quanto meno in Italia, perché da troppo tempo è stata sconfitta l’idea che si possa vivere e lavorare anche divertendosi.
P.S. Quest’articolo è dedicato ad Antonio Di Natale, grande campione e grande uomo, che ha preso in affidamento la sorella disabile di Morosini. Solo per questo gesto, meriterebbe di essere convocato agli Europei. Essendo anche uno dei migliori attaccanti italiani, mi auguro che Prandelli (altro raro esempio di umanità nel nostro calcio) la pensi allo stesso modo.


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