“Vatileaks 2? Un processo farsa”. Intervista al giornalista Emiliano Fittipaldi

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Riprese le udienze del processo Vatileaks 2, che vede imputati, tra gli altri, anche i giornalisti Emiliano Fittipaldi e Gianluigi Nuzzi, accusati di aver diffuso documenti riservati della Santa Sede nei rispettivi libri Avarizia e Via Crucis. Entrambi i libri sviscerano i segreti finanziari del Vaticano rivelando informazioni di pubblico interesse – ma «di cui è vietata la divulgazione», come richiede l’articolo 116 bis del codice penale in rigore in Vaticano – rispetto alla gestione economica della Santa Sede. Per Fittpaldi, intervistato da Articolo21, quello in corso non è altro che un «processo farsa», un processo in cui finisce sotto accusa praticamente per aver fatto il suo mestiere, per aver fatto domande.

Siamo alla sesta udienza: il processo Vatileaks 2 va avanti. Quali sono gli sviluppi?
Degli imputati principali, siamo stati interrogati per tre ore io e monsignor Vallejo Balda, accusato di aver fatto uscire dal Vaticano alcuni documenti riservati. La cosa più importante riguardo i giornalisti è che Balda, di fatto, si è rimangiato le accuse che erano contenute nel memoriale. Non quello di aver consegnato documenti riservati, di non interesse pubblico, ma quelle secondo cui noi avevamo ottenuto questi documenti attraverso minacce o pressioni, la cosa più infamante nell’accusa che ci veniva svolta. Accuse, queste, che ci faceva il promotore di giustizia. Quindi Balda ammette, di fatto, che lui aveva una percezione di pressione psicologica nella sua testa, non c’era una prova per giustificare questa balla gigantesca inserita nel memoriale. Questo dietro front alleggerisce di molto la posizione dei giornalisti, dal punto di vista processuale. Dal punto di vista sostanziale, ho sempre ritenuto che questo processo fosse una farsa totale.

La mancanza delle minacce quindi farebbe cadere l’accusa nei vostri confronti?
Questa accusa sì. Noi siamo accusati del reato previsto dall’articolo 116 bis, voluto da Francesco nel 2013, che prevede una pena da quattro a otto anni di carcere per cittadini vaticani e stranieri che divulghino informazioni di cui è vietata la divulgazione. Di fatto nei libri Avarizia e Via Crucis queste informazioni ci sono e quindi quell’accusa rimane in piedi, anche se si tratta di un’accusa risibile, perché è una legge risibile. È una legge che, infatti, blocca qualsiasi forma di libertà di stampa e di diritto di cronaca. Finché non verrà cambiata quella legge, un’accusa del genere resta in piedi. Di quella me ne frego altamente, perché se c’è una legge che impedisce al giornalista di fare il giornalista non va rispettata. Il punto è che decade l’accusa infamante e falsa – non c’era nessuna prova, e comunque il sottoscritto non ha mai minacciato nessuno in vita sua – delle presunte pressioni su monsignore. Balda ha consegnato i documenti in maniera assolutamente spontanea. Inoltre c’è da sottolineare che, nell’interrogatorio che mi è stato fatto, il 15 marzo, non c’è nessuna indicazioni di documenti rubati o ottenuti illecitamente: il promotore di giustizia non ha mai contestato al sottoscritto un atteggiamento del genere, nonistante addirittura Papa Francesco dall’Angelus aveva parlato di documenti trafugati e rubati, l’opinione pubblica immagina quindi una cosa del genere. Chi aveva i documenti ne era in possesso legittimamente e questo fa capire l’assurdità di un processo che più che kafkiano mi sembra una commedia di Scarpetta.

Le domande che ti sono state poste in Vaticano sono sembrate al limite dell’assurdo, quasi ridicole se poste ad un giornalista.
Sì, le domande del Vaticano durante l’interrogatorio sono state assurde: mi hanno chiesto perché sono interessato e perché facevo domande sui bilanci e sulla vita economica della Chiesa, come mai fossi interessato alle stranezze della gestione della fabbrica dei Santi, perché con insistenza chiedevo il bilancio della prefettura economica del 2013. Domande paradossali, perché la risposta è semplicemente: perché faccio il giornalista e è il mio mestiere fare domande. Il fatto che a processo, in Vaticano, si chieda “perché fa domande?” fa capire quanto sia ancora lontano lo Stato della Città del Vaticano da una concezione d libera informazione. D’altronde la trasparenza economica ancora oggi è praticamente nulla, nonostante la volontà riformatrice di Papa Francesco.

Alla luce di quello che dici e rispetto alla situazione paradossale cui stiamo assistendo e all’attenzione mediatica sul processo, pensi ci possa essere un cambio di rotta in fatto di informazione?
Io non penso, anche perché l’attenzione mediatica si è molto sgonfiata rispetto all’inizio. C’è stata molta attenzione sui due libri e sull’inizio della fase processuale, ma il processo in sé sembra poco interessare i giornalisti e l’opinione pubblica. Questo non mi sorprende più di tanto perché siamo abituati ad una informazione che è una specie di fast food, dove le notizie vengono bruciate alla velocità della luce. Questa sembra già una storia vecchia, anche se non è conclusa e anche se non ha portato a nessuna trasformazione: sul Vaticano stampa e telegiornali sono a fare i pezzi sui tre anni rivoluzionari di Papa Francesco, senza badare ai fatti che sono accaduti realmente. Dopo quattro mesi, sempre rispetto al ragionamento dell’informazione fast food, penso che la storia riprenderà ad interessare nel momento della sentenza. A meno che non scoppino altri casi clamorosi. Non interessa più di una iniziale indignazione che due giornalisti vengano messi sotto processi dal Vaticano. Dopo un po’ ci si abitua anche a questa stranezza e si va avanti. È normale che sul processo Vatileaks, in questo tourbillon continuo, sia calata l’attenzione.

Perché un Papa che si è dimostrato rivoluzionario non tocca un nodo così delicato come la libertà di informazione, in uno Stato, quello Vaticano, che è l’unico in Europa a non avere una legislazione in materia?
Io spero che questo processo alla fine serva. Anche grazie alle polemiche che ci sono state intorno all’ipotesi di cambiare quella legge, che è una legge sbagliata, una legge che punisce chi vuole fare trasparenza, anche le fonti interne. Fino a prova contraria, monsignor Vallejo Balda è da quasi cinque mesi nelle carceri vaticane per aver consegnato dei documenti che servirebbero a dare una maggiore trasparenza finanziaria in Vaticano. È abbastanza paradossale, soprattutto alla luce del fatto che non siano nemmeno indagati, invece, personaggi come Bertone, come Pell, come coloro che gestiscono la fabbrica dei Santi, come Calcagno e come altri cardinali importanti che utilizzano i soldi in maniera quantomeno discutibile. Tutti questi non sono stati nemmeno sfiorati dall’indagine della gendarmeria del Vaticano, finora, anche se sono stati colti dai giornalisti con le mani nel sacco.


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