Dall’Alitalia a Telecom, alle Poste, alla Rai. Le privatizzazioni col buco

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Le Privatizzazioni in Italia non hanno mai debellato il virus del “Debito pubblico”.

Un anomalo governo di centro/destra/sinistra per la prima volta nel Ventennio berlusconiano ha gettato la maschera: “stiamo studiando anche la privatizzazione della RAI”, oltre quella totale dell’Eni e delle Poste. Quello che non si è mai azzardato a fare Berlusconi, nonostante la legge Gasparri, figlia del conflitto di interessi, né tanto meno l’iperliberista Monti, oggi lo mettono sul tavolo del risanamento dei conti pubblici un ministro sedicente “keynesiano” come Saccomanni e un viceministro; mentre un grand commis dello Stato, Catricalà si augura di “spalmare” il canone RAI anche ai network privati concorrenti.

Intanto, va ricordato che tutta la Rai per Mediobanca ha un valore di mercato che si aggira sui 2,1 miliardi di euro, a fronte di un valore “patrimoniale” di 4 miliardi (il canone da solo vale teoricamente 1,6 miliardi): una somma del genere non risolverebbe nemmeno l’abolizione della seconda rata dell’IMU!

In quanto poi al risanamento del Debito (arrivato al 133/135% sul Pil), nessuna privatizzazioni l’ha fatto scendere sotto la soglia del 100%, come richiesto dalla Commissione Europea e dalla BCE: solo con Prodi capo del governo e Ciampi ministro del tesoro ci si avvicinò verso il 103%.

La strada delle privatizzazioni in Italia è lastricata di cadaveri, di aziende un tempo “orgoglio dell’ingegno italico”, poi divenute lottizzate, decotte e corrotte, per finire svendute spesso come uno “spezzatino” ai soliti noti delle famiglie imprenditoriali nostrane, avide nell’accaparrarsi l’antica mobilia per pochi spiccioli e poi sbarazzarsene, perché incapaci di “fare sistema”, di confrontarsi con i mercati globali.

Dalla metà del 1992 a tutto il 2005 il ricavo totale delle privatizzazioni effettuate in Italia ha superato i 150 miliardi di euro. Se si confrontano i proventi delle privatizzazioni nei principali paesi europei nel periodo 1992/2000, si scopre che l’Italia è stato il paese che ha maggiormente privatizzato per un introito di oltre 112 miliardi di dollari, contro i circa 88 della Spagna, gli 85 della Germania, i 63 della Francia e i 48 della Gran Bretagna.

Rispetto al ventennio 1979 – 1999, data di inizio delle privatizzazioni in Gran Bretagna, è l’Inghilterra al primo posto per i maggiori proventi con 165 milioni di dollari, seguita da Italia con 122, Francia con 71, Germania con 63 e Spagna con 62.

In Italia “privatizzazione” fa sempre rima con “disoccupazione” e “dismissione”!

In principio, furono privatizzate le tre banche BIN (Credito Italiano, Banca Commerciale Italiana, Banco di Roma) in mano all’IRI (l’Istituto per la Ricostruzione Industriale, sciolto nel 2000 per un accordo tra Commissione Europea e Governo italiano), poi seguirono i “panettoni” di Stato (Motta e Alemagna), l’agroalimentare della SME (i biscotti Pavesi, le patatine PAI, la Cirio-Bertolli-De Rica), la catena di supermercati GS, le auto dell’Alfa Romeo, le Autostrade e gli Autogrill, la siderurgia della Finsider con l’Ilva di Taranto e le Acciaierie di Terni e Piombino, gli autobus e i treni della Breda Pistoiesi, le aziende strategiche dalle “galline dalle uova d’oro” di Finmeccanica, le navi della Fincantieri, i collegamenti della Finmare, parti di Alitalia, la Telecom-Stet.

Ora, dopo il disastro Alitalia (5 miliardi di euro versati dai contribuenti per farla restare “italiana” con i “capitani coraggiosi” voluti da Berlusconi!), si prepara il percorso “a spezzatino” di Telecom, Poste e RAI.

Sorgono spontanee alcune domande: privatizzare è di destra o di sinistra, liberale o socialdemocratico? A chi conviene realmente: ai venditori, ai contribuenti o a chi compra?

E, soprattutto, in Italia esistono davvero regole “di mercato”, controllori autonomi e tempestivi, leggi antitrust e a difesa dei consumatori, come nel resto dell’UE e negli USA?

Domande che restano sospese, inevase, nel vuoto pneumatico del mondo della politica, da destra a sinistra. La storia e la memoria ci ricordano che la strada delle privatizzazioni è stata intrapresa da economisti, top manager, uomini di governo e politici orbitanti nel centro-sinistra (democristiani di sinistra, socialisti, comunisti). Convinti che grazie al sistema britannico (in alternativa a quello “Renano”, tedesco, dove le privatizzazioni vedono un mix di intervento di privati con le istituzioni finanziarie dei Lander, le regioni-stato), i precursori della via italiana (Andreatta, Ciampi, Prodi, D’Alema, Amato, autorevoli esponenti dei governi “progressisti”), si accordarono agli inizi degli anni Novanta con la Commissione Europea per chiudere l’esperienza storica dell’EFIM, della GEPI e soprattutto, dell’IRI in vita dal 1933.

La sentenza pubblica e ufficiale, più dura e inequivocabile al metodo italiano delle privatizzazioni è contenuta in un documento del 10 febbraio del 2010, a firma della Corte dei Conti, che stigmatizza anche le procedure di scelta degli acquirenti: “si evidenzia una serie di importanti criticità, le quali vanno dall’elevato livello dei costi sostenuti e dal loro incerto monitoraggio, alla scarsa trasparenza connaturata ad alcune delle procedure utilizzate in una serie di operazioni, dalla scarsa chiarezza del quadro della ripartizione delle responsabilità fra amministrazione, contractors ed organismi di consulenza, al non sempre immediato impiego dei proventi nella riduzione del Debito”.

La Corte giudica, inoltre, un iniziale recupero di redditività da parte delle aziende passate sotto il controllo privato: “un recupero che, tuttavia, non è dovuto alla ricerca di maggiore efficienza, quanto piuttosto all’incremento delle tariffe di energia, autostrade, banche, ben al di sopra dei livelli di altri paesi europei. A questo aumento, inoltre, non avrebbe fatto seguito alcun progetto di investimento, volto a migliorare i servizi offerti”.

Le tariffe autostradali costano sempre di più, mentre i soci tra cui i Benetton hanno incamerato lauti guadagni, tanto da allontanarsi costantemente dal business originario della maglieria e dei negozi in franchising. La qualità delle stazioni di servizio su quella rete è in progressivo decadimento, così come sono aumentati le tariffe aeroportuali a fronte di disservizi crescenti. Per non parlare poi degli aumenti e dei disagi per chi sceglie gli aerei della CAI/Alitalia e dei traghetti per le isole. L’agroalimentare e la catena dei supermercati ormai sono in mano degli stranieri, in primis i francesi.

Ma un esempio che ha fatto scuola e che è il progenitore delle “privatizzazioni all’italiana” nel campo delle TLC è quello della Telecom. Bisogna partire dagli inizi degli anni Novanta per capire il “brodo primordiale” che genera le attuali storture del mercato.

La “gallina dalle uova d’oro” della Telecom era una preda ambita da tutti gli imprenditori della cosiddetta “razza padrona” italiana e straniera, anche perché si andava sviluppando il business della telefonia mobile e si gettavano le basi dell’interconnessione tra Rete WEB e Rete telefonica, con l’arrivo del digitale, lo sviluppo delle comunicazioni iperveloci via ADSL, il cavo a fibre ottiche, il doppino di rame potenziato e l’UMTS per i cellulari.

Si chiamava Progetto SOCRATE (acronimo di Sviluppo Ottico Coassiale Rete Accesso TElecom) per la realizzazione di una rete cablata a banda larga, che avrebbe dovuto coprire tutte le abitazioni italiane. Partito ufficialmente nel 1995 fu bloccato nel ’97, quando il servizio aveva già raggiunto circa un milione e mezzo di abitazioni. I grandi quotidiani “indipendenti”, dietro i quali si celavano e si celano ancora imprese, banche e società finanziarie portatatrici di conflitti d’interessi, attaccarono i vertici dell’epoca della finanziaria STET e della stessa Telecom, perché secondo le loro analisi strumentali i costi erano eccessivi (13 mila miliardi di lire, gli attuali 6,5 miliardi di euro, di cui 5 mila miliardi di lire già investiti) e non prevedevano un mercato privato tale da coprire l’investimento.

Il progetto fu così abbandonato, parte della rete fu acquistata da Fastweb.

Ma in questo modo Telecom fu venduta ai soliti “Campioni” nazionali, in sfregio alle regole di mercato dell’OPA e della tutela delle minoranze, con un “mucchio selvaggio” di grandi azionisti che ne controllarono, così come avviene oggi, le attività pur avendo in mano solo il 22,4% dell’intero pacchetto azionario. Ora, con la mossa di acquisto della spagnola Telefonica, dopo l’Omnitel della Olivetti, poi venduta ai tedeschi della Mannesmann e quindi agli inglesi di Vodafone, e la Wind-Infostrada in mano prima agli egiziani di Sawiris e poi ai russi di VimpelCom, la telefonia mobile italiana, una volta all’avanguardia del mercato mondiale, ora ha perso la sua identità nazionale e forse anche il controllo dei metadati, se la rete non verrà gestita da un consorzio pubblico-privato nazionale.

E mentre le Poste si trasformano sempre più in un istituto bancario, perdendo l’identità tradizionale storica e con il rischio di venire spezzettata nei servizi meno convenienti, separandoli da quelli della raccolta dei bonifici (che fanno la ricchezza della Cassa Depositi e Prestiti), per poi essere venduta ai soliti “furbi del salotto buono” (una direttiva europea ha già deciso per l’ingresso dei privati nelle Poste, anche se Francia, Belgio e Germania si stanno opponendo); dall’altra parte, s’avanza l’ipotesi surreale di privatizzare, seppure in parte, il Servizio pubblico RAI, in contrasto con tutte le direttive della Commissione UE e le delibere del Parlamento di Bruxelles.

Ma prima di intraprendere un percorso così insidioso, sarebbe consigliabile ai tanti “soloni” liberisti di centrosinistra di guardare oltre i confini, per scoprire che in Europa siamo noi l’anomalia con un mercato dei media, “drogato” dai conflitti di interessi nei network RadioTV, nella raccolta pubblicitaria, nell’editoria della carta stampata, nella produzione e distribuzione dei film.

In Italia, va ricordato ancora, non esiste una legge sul conflitto d’interessi alla stregua di quelle europee o americana; il maggiore concorrente rimarrebbe sempre con 3 canali TV generalisti e la stessa potenza di trasmissione sul digitale terrestre (unico esempio al mondo!); non esiste una piattaforma satellitare alternativa a quella di SKY Italia, che veda la RAI protagonista con altri privati, come accade per la BBC in Gran Bretagna, in concorrenza con BSKYB di Murdoch; esistono una Authority sulle TLC e una Commissione parlamentare di Vigilanza; non esiste in Italia una legislazione che vieti nei media incroci proprietari tra banche, finanziarie e altri settori industriali o immobiliari.

Neppure l’iperliberista Thatcher, nella sua furia iconoclasta contro la presenza dello Stato, osò una mossa del genere contro la BBC, pur avendo privatizzato di tutto e di più!


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