Rai: per cambiare servono contenuti

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Carne da mettere sul fuoco non ne manca, anzi. Lo dimostrano i primi interventi nel dibattito sulla necessità di una conferenza di programma sul futuro della Rai. Un appuntamento da non lasciarsi sfuggire in una stagione politico-professionale dove scarseggiano i contenuti reali ed a fare notizia sono solo gli inutili berci di un inadeguato ceto politico, interessato in sostanza a mantenere lo “status quo” del servizio pubblico in attesa dei nuovi equilibri che usciranno dalle urne.
Un eterno rimando che rischia di soffocare la Rai, arrivata ormai al capolinea come chi ci lavora sta sperimentando ormai quotidianamente sulla propria pelle. I nodi politici generali (conflitto di interesse, legge Gasparri, etc.) sono i veri problemi che paralizzano il servizio pubblico: la mancata soluzione in tempi brevi condannerà definitivamente la Rai, che ormai è già saldamente incagliata nella “morta gora” del mercato tv. La perdita dei diritti televisivi per la trasmissione dei gol a “Novantesimo minuto” è l’ennesima riprova della marginalità in cui è costretto a vivere il servizio pubblico.
Ma qualcosa si può e si deve fare per non morire. Come giornalisti possiamo avanzare qualche modestissima proposta.  Innanzitutto ridefinire la “mission”  dei canali. Come da più parti si fa notare l’attuale assetto Tg1, Tg2 e Tg3 è frutto di vecchi equilibri politici entrati ormai a far parte della storia del paese: è il momento di pensare ad un telegiornale unico in grado di competere anche nelle all news. In tempi non lontani la vecchia dirigenza cominciò a ragionare sulla diversificazione dell’offerta televisiva sulle tre reti, progetto poi accantonato. Manca innanzitutto la voglia di sperimentare. Perché non provare a mettere l’informazione in prima serata? Non i talk show che ormai (come ci ricordano i critici televisivi) si stanno trasformando nel museo delle cere televisive: sempre gli stessi ospiti, gli stessi politici, gli stessi giornalisti, una compagnia di giro sempre uguale, di cui ognuno conosce a memoria le battute dell’altro. Qualche consiglio di amministrazione fa, fu anche lanciata la proposta (inabissatasi altrettanto velocemente) di portare l’informazione internazionale in prima serata. Quello che ancora resta delle storiche rubriche di approfondimento Rai (Tv7, Tg2 Dossier, Agenda del Mondo) vanno in onda in orari praticabili solo dagli insonni incalliti, dagli allettati, dai reduci dai rave parties.
Credo che l’informazione sia il tratto distintivo di ogni servizio pubblico che in ogni caso deve coniugare insieme divertimento (possibilmente intelligente), cultura, intrattenimento e informazione di qualità. In questo siamo confortati da Enzo Biagi, il quale ricordava che non c’è afflizione peggiore che leggere, ascoltare o vedere un servizio giornalistico noioso. Mentre un vecchio caporedattore di un glorioso quotidiano livornese ripeteva ossessivamente ai suoi redattori : “Siete pagati per scrivere la seconda s……ta che pensate, non la prima che vi salta in mente!”.
Nel contratto di servizio tra Stato e Rai viene ribadita la caratteristica precipua dell’informazione nazionale ed internazionale come atto fondante dell’accordo. Solo chiarendo il ruolo della Rai nel panorama informativo si può definirne il futuro.
Certo, la crisi morde anche la tv. “France Television” dimagrisce forzatamente ma non è dappertutto così. In Africa, complice anche il mercato economico in espansione ed un continente tutto da raccontare, i servizi pubblici europei sono presenti in forze: Germania, Francia, Svezia, Norvegia, Finlandia, ovviamente Bbc, insomma non manca proprio nessuno all’appello. Non ci soffermiamo neanche su Cnn o Al Jazeera che a Nairobi ha il suo desk centrale per l’Africa, su cui si è già detto tanto. Ma una bella scoperta è la Cctv (China Central Television), il servizio pubblico cinese. E’ vero che il paese del Dragone è il primo o il secondo partner commerciale di più della metà dei 54 stati africani e che nel 2011 gli scambi economici con il continente nero hanno toccato i 155 miliardi di dollari. Di conseguenza il “soft power” che i cinesi hanno adottato impone una penetrazione più capillare dal punto di vista informativo per realizzare un restyling dell’immagine della Cina all’estero e spiegare le ragioni politiche della sua crescita. Il risultato è che la Cctv oggi ha 71 uffici di corrispondenza sparsi nei 5 continenti. Per quanto riguarda l’Africa può contare su 17 redazioni in altrettanti stati che nel 2013 raddoppieranno grazie anche agli investimenti previsti di 7 miliardi di dollari per lo sviluppo delle sedi estere. La Cctv trasmette su sei canali internazionali in cinese, inglese, francese, spagnolo, russo, arabo. Un successo possibile grazie alle sinergie tra le aziende di stato: giganti delle telecomunicazioni, agenzia di stampa, e le aziende produttrici di tablet, telefonini e smartphone.
Questa lunga digressione serve a spiegare quanto ormai sia importante per tutti i network televisivi occidentali e non solo parlare del mondo, aprire le finestre su ciò che succede lontano dalla casa madre: in fondo anche l’informazione va globalizzata nel senso nobile del termine. Se gli italiani tornano ad essere migranti perché non creare ponti con il mondo per accorciare le distanze e favorire la conoscenza reciproca? Perché non garantire l’informazione dai loro paesi di origine anche ai tantissimi immigrati che vivono in Italia?
Non sono domande retoriche nel momento in cui anche il governo di Mario Monti è impegnato a rilanciare l’ immagine del nostro paese all’estero, consapevole che gli angusti confini (anche informativi) non favoriscono la crescita del Belpaese.
La chiusura di Rai Internazionale va controcorrente in questo senso, lasciando gli italiani nel mondo privi di un importante legame con la madre patria.
Sono questi gli argomenti su cui invitare al confronto i giornalisti Rai con la consapevolezza che solo aprendo un confronto generale sul futuro dell’azienda avremo la possibilità di salvarla. Frammentare il dibattito su singoli aspetti, a volte marginali o addirittura fuorvianti rispetto all’obiettivo, è solo un modo per allontanarci dalla soluzione dei problemi. Rincorrere i nostri interlocutori per avere rassicurazioni parziali non paga. Lo sforzo comune deve essere teso a ritrovare una progettualità professionale, sindacale, politica accantonata o smarrita nel corso di questi anni dove come categoria abbiamo perso autorevolezza. Insomma è necessaria una vertenza a tutto campo sull’informazione. Solo così potremo capire che cosa vogliamo fare da grandi.


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