Nel volume di Mirco Dondi edito da Laterza la storia della tv in Italia nel suo rapporto con la politica, dalla metà dei ’70 con l’ingresso dei privati fino a Berlusconi
Professore di Storia contemporanea e direttore del Master di Comunicazione, Mirco Dondi ha scritto un volume (Dal salotto al Palazzo, Bari-Roma, edizioni Laterza, 2025, pp.361) che si cimenta sui tornanti della regina dei media: dal 1974, che prefigurò sia la riforma della Rai dell’anno successivo, sia la liberalizzazione dell’etere con due sentenze della Corte costituzionale (n.225 e n.226) anticipatrici della n.202 del 1976 che portò a compimento l’apertura al mercato; fino all’anno della discesa in campo di Silvio Berlusconi. Probabilmente per scelta, il racconto si ferma un attimo prima della definitiva trasformazione della Fininvest in un vero e proprio impero in cui la politica si fa comunicazione, e quest’ultima assume un ruolo direttamente politico.
IL TESTO percorre in modo molto preciso e documentato l’entrata in scena dei soggetti privati, un tessuto interessante e assai sottovalutato, rappresentativo – invece – di un desiderio relazionale che il vecchio e anchilosato monopolio di Stato non riusciva a raccogliere. Sul finire degli anni Settanta del secolo scorso fiorirono davvero mille fiori che, in assenza di una moderna regolazione normativa in grado di assumere le novità evitando la formazione di un monopolio, questa volta privato, furono spinti verso la periferia del villaggio globale. Non per caso entrò nel linguaggio comune il brutto termine «duopolio», favorito da una maggioranza di governo sorretta dalla vicinanza della Democrazia cristiana alla Rai, nonché dall’esplicita connessione tra i socialisti italiani e le aziende del biscione.
Per un curioso destino i riferimenti di maggiore visibilità furono titolari del dicastero competente (Poste e Telecomunicazioni) di fede socialdemocratica e repubblicana: Michele di Giesi, Carlo Vizzini, Maurizio Pagani, Giorgio Bogi e Oscar Mammì. Proprio quest’ultimo ha dato il nome alla legge dell’agosto ’90 che legittimò definitivamente la concentrazione berlusconiana, ratificando la possibilità per un singolo proprietario di avere tre reti televisive nazionali.
Tale opportunità, in base alla legge n.10 del 1985, avrebbe dovuto essere limitata a sei mesi. La vicenda mediatica ebbe proprio in quei passaggi il suo punto di svolta, contrastato sì ma forse non completamente dalle stesse opposizioni.
COMUNQUE, la virtù principale del testo si trova non tanto e non solo attorno ai nodi legislativi, oltre l’ormai logoro resoconto ex post di decisioni che – certamente discutibili – vanno inserite in un contesto politico e culturale non irrigato da conoscenza e consapevolezza sull’importanza del sistema mediale. Il merito del volume è di svolgere una ricognizione capillare della stagione in cui si plasmò un universo che ha pesato e pesa sulla situazione di oggi. La scarsa capacità di comprendere la realtà ha compromesso il seguito, nel quale l’assenza di un principio regolatore democratico e di una visione hanno compromesso l’autonomia produttiva italiana. E, allo stesso tempo, l’emittenza locale non è mai riuscita, come avrebbe meritato, di assurgere a vero «terzo polo», libero e indipendente. È vero, purtroppo, il contrario: un consorzio, «5 Stelle» – (chissà se Grillo prese il nome da lì) – vicino al servizio pubblico e un cospicuo gruppo di stazioni attratte dalla forza pubblicitaria della Fininvest dominarono il settore.
Il testo alza la soglia della riflessione nella seconda parte, dove si ragiona sulle diverse età del video. La politica è stata profondamente trasformata e il passaggio non ebbe ritorno, al punto che nel 1995 uno specifico (e rimosso) referendum teso a ridimensionare l’impero privato fu sconfitto.
Una critica: il felice volume parla solo fuggevolmente dei conflitti di quelle stagioni, né effimeri e neppure superficiali.
Fonte: https://ilmanifesto.it/dal-salotto-al-palazzo-lascesa-vista-in-differita?t=lE82z0SdsuWA60PTil5YE
La foto riproduce una scena da «Videodrome» di David Cronenberg
