Giornalismo sotto attacco in Italia

“Mia moglie” e lo stupro virtuale

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Nelle ultime settimane si è scatenata la solita retorica e superficiale polemica riguardo alcuni gruppi social in cui venivano condivise foto intime femminili non consensuali, seguite da commenti volgari e sessisti, insomma la solita oramai arcinota subcultura misogena e maschilista.
Il gruppo era attivo dal 2019, ma la pubblicazione di immagini sessuali sarebbe iniziata solo a maggio 2025, nonostante l’account fosse stato già segnalato in passato e mai chiuso, fino al clamore mediatico della notizia.
Tutto è successo a metà agosto, quando la scrittrice Carolina Capria scriveva dell’esistenza di un gruppo privato Facebook con 32mila iscritti, fra cui tanti noti personaggi pubblici, dove campeggiavano in bella mostra foto intime delle proprie partner, con commenti ignobili a sfondo sessuale sul corpo femminile.
Nel gruppo, denominato “Mia Moglie”, la pratica social preferita consisteva nel ridurre la propria compagna a merce sessuale da esporre ad un vero e proprio, paradossalmente definito, “stupro virtuale”.
Dopo la segnalazione, finalmente la polizia postale chiudeva l’account, ma intanto la diga mediatica è crollata e dilaga di tutto: da mogli ignare, con anni di apparentemente sereno matrimonio alle spalle, ad esponenti politiche e volti noti dello spettacolo che si sono ritrovate “porno –trasformate” sul web ed esposte al pubblico ludibrio in una serie disgustosa di gruppi social che richiamavano fino a 600 mila accessi al giorno e 20milioni di visite al mese.
Un susseguirsi di post con foto private e rubate, accompagnate da body shaming accompagnato a compiacimenti volgari, ma soprattutto da un ripetuto incitamento ad irripetibili violenze sessuali.
Oggi “Mia moglie” et similia sono stati sigillati e le procure indagano, ma il fenomeno dei gruppi social che sollecitano alla violenza sul web ed agli abusi digitali è in continuo aumento, comprovando innanzitutto che la tutela algoritmica dei social network non funziona e non rispetta il Digital Services Act Europeo, ossia la normativa europea sulla gestione ed utilizzo sulle piattaforme digitali.
Da altro lato, la vicenda riflette ancora e nonostante le tante battaglie femminili, un conclamato impianto culturale di stereotipi di genere, e suscita una riflessione su come la tecnologia possa addirittura peggiorare le relazioni familiari e sociali in generale.
Le dinamiche di queste chat sollevano interrogativi su come le persone interagiscono con la realtà virtuale rispetto ai loro rapporti reali, ovvero sulla direzione culturale che ha pericolosamente intrapreso questa società moderna, in particolare sulla comunicazione e sul rapporto fra esibizione ed intimità.
Non si tratta di banale pornografia, di cui peraltro il web trabocca senza controllo, bensì ancora una volta di “reificare” la figura femminile, considerandola solo come un esibito oggetto di possesso e di gestione unilaterale maschile.
La donna diventa “unicamente” un corpo posseduto da mettere in mostra per provocare la considerazione pubblica, o meglio la compiacenza altrui, alla stregua di una bella automobile da invidiare.
Le modalità relazionali di queste chat suggellano i soliti stereotipi di genere, presentando un’identità femminile distorta e legittimata dai notori cliché.
Nelle aule di tribunale siamo invero abituate ad averci a che fare ogni giorno, specie nei processi per stupro.
Ma questa rappresentazione artefatta oggi fa dirigere l’attenzione anche verso la tecnologia e la sua esponenziale negativa influenza sulle opinioni nei confronti delle donne e dei loro ruoli familiari, ancor prima che sociali.
L’idea di interagire dialogando su una “moglie” trasformata in oggetto sessuale deve far riflettere criticamente sulle dinamiche di potere nelle relazioni, perché rivela una visione distorta dell’intimità e del rapporto fra i generi.
Ed è proprio lo stesso congegno disfunzionale che ritroviamo alla base della violenza di genere, in particolare dei femminicidi, per cui se non posso avere una donna a disposizione e farla vivere come voglio io, la elimino come farei con un ostacolo alla mia autostima maschile ed al mio narcisismo autoreferenziale.
Altro pensiero si sofferma sulla preferenza che certi prototipi maschili, e purtroppo oggi a quanto pare anche femminili, rivolgono alle interazioni virtuali rispetto a quelle reali, influenzando la qualità delle relazioni umane, ridotte in apparenti e manipolate, nonché la capacità di comunicare in modo autentico con il prossimo.
Tutto può assumere una preoccupante dimensione socialmente deviata e può alimentare una forma di dipendenza da relazioni distorte, nelle quali gli utenti cercano conferme alle proprie frustrazioni nell’interazione artificiale basata sull’abuso e la strumentalizzazione dell’altro, piuttosto che in rapporti genuini e leali.
Dunque, la diffusione di applicazioni come “Mia Moglie” e le altre normalizza comportamenti molto problematici, come l’idealizzazione di relazioni artificiali, l’accettazione di dinamiche di genere stereotipate ed ancora una volta la riduzione del corpo femminile a mero strumento di piacere individuale, meglio se esibito.
Tutto questo ci fa chiedere cosa significhi davvero oggi l’intimità e come stiamo educando i nostri giovani alle relazioni affettive, perché se si cerca conferma sociale in una interazione tossica e dannosa, si pone la questione etica di come ciò influenzi le aspettative delle future generazioni e la capacità di costruire legami emotivi con altri esseri umani.
In un’epoca in cui il dramma primario è l’indifferenza sociale nonostante una perenne connessione web, chat come “Mia Moglie” rappresentano una facile e distorta risposta alla solitudine etica, al quotidiano rifiuto dei valori della civiltà umanistica e della solidarietà sociale, sostituendo il contatto umano reale e la responsabilità verso chi ci sta accanto. Sulla vicenda ci si aspetterebbe una discussione politica costruttiva, oggi purtroppo ancora non pervenuta, perché “Mia Moglie” non è solo un’applicazione di messaggistica di volgari maschilisti, ma un fenomeno che solleva importanti questioni sociali e culturali, invitando a una riflessione critica su come siano ridotte le nostre comunicazioni sociali. Sappiamo che la violenza online si esprime anche così e non riguarda solo ignare donne, ma ogni categoria di persone che si presta ad essere “vulnerabilizzata” dai giudizi e dalle strumentalizzazioni.
Ci sono gli abusi che riguardano i minori, con decine di siti del deep web in cui circolano immagini e video raccapriccianti. O in genere i più fragili, come i disabili.

 E poi c’è il tema della presunta impunità del branco per cui se la “massa” si convince che commentare con frasi oscene la foto nuda di una donna va di moda e non si commette nulla di anormale, e se chi legge resta spettatore indifferente, tutta il sistema della legalità a fondamento della civile convivenza corre un serissimo pericolo.  

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