La Governance istituzionale
La legge sulla nuova governance della Rai – qualora venga discussa e approvata – va inquadrata all’interno di un panorama che comprende certamente l’entrata in vigore del Regolamento Europeo per la libertà dei media (EMFA) ma anche due scadenze istituzionali altrettanto rilevanti: il rinnovo della Concessione del servizio pubblico nel 2027 e la conclusione della legislatura prevista per ottobre dello stesso anno. A completare il quadro, c’è un servizio pubblico che versa in una condizione di fragilità cronica, aggravata da un riassetto organizzativo incompiuto e, soprattutto, da un’interferenza politica particolarmente ostinata che ne ha eroso la credibilità e snaturato la missione.
La riforma della governance non può prescindere dal contesto politico complessivo. Le prossime elezioni politiche potrebbero, infatti, delineare maggioranze di segno diverso: pertanto non avrebbero senso logiche di breve respiro o calcoli opportunistici perché in gioco c’è il futuro della Media company di servizio pubblico almeno fino al 2037.
La Rai Servizio pubblico soggettivo
Prendiamo, ad esempio, il rinnovo della Concessione. Vale la pena di ricordare che nel 2017 fu orchestrata da Confalonieri e Cairo una campagna di stampa, con Minoli testimonial, con l’obiettivo di sottrarre alla Rai l’esclusiva del Servizio pubblico in modo da destinare quote del canone alle Tv commerciali. Fortunatamente quel disegno fu sconfitto: ma sicuramente tornerà a riemergere nella discussione sulla governance perché i grandi editori faranno di tutto per rimpiazzare il servizio pubblico con un generico “pubblico servizio“, che potrebbe essere gestito indifferentemente da aziende pubbliche o private.
Il servizio pubblico reso dalla Rai è, da sempre, “soggettivo” perché dipende dalla natura (statale) dell’ente che lo esercita, non dal tipo di contenuti offerti. (Sentenza della Corte n. 284 del 2002). Se si accetta che basti trasmettere programmi educativi o culturali per essere considerati “servizio pubblico”, allora anche soggetti privati potrebbero rivendicarne il ruolo. Ma così si snatura la definizione stessa di servizio pubblico e si apre la strada a una sua sostanziale privatizzazione: una deriva, quella delle convenzioni, che sta progressivamente privatizzando il servizio sanitario nazionale.
Il pluralismo, principio cardine della democrazia, non può essere garantito da soggetti privati, la cui missione risponde inevitabilmente a logiche di mercato, di profitto o di appartenenza. La distinzione tra servizio pubblico soggettivo e oggettivo è quindi centrale nel confronto sulla nuova governance della Rai. Disancorare l’azienda dalla titolarità pubblica, dalla sua “soggettività”, come proposto in alcuni disegni di legge, e ipotizzare che una fondazione o un ente di diritto privato possa rappresentare una soluzione per sfuggire al controllo dell’esecutivo, significa in realtà imboccare la strada, pericolosamente ambigua, della privatizzazione. E con essa, si comprometterebbe l’unico presidio istituzionale in grado di garantire un’informazione autenticamente plurale, indipendente e rivolta all’interesse generale. D’altronde, basta guardare all’evoluzione delle fondazioni bancarie, a partire dalla legge Ciampi del 1998, per capire come strutture nate con finalità pubbliche possano progressivamente allontanarsi dalla loro missione originaria. Bisogna muoversi tra Scilla e Cariddi, tra quelli che pensano di privatizzare la Rai e quelli che vogliono rendere pubbliche le televisioni private
Un CdA pluralista e collegiale
Di una cosa si può essere certi: il prossimo CdA Rai non potrà più essere scelto con il solito casting a porte chiuse, senza nemmeno la recita dei provini. Il nuovo regolamento europeo impone infatti, all’Articolo 5, una procedura trasparente, aperta, efficace e non discriminatoria, fondata su criteri oggettivi e predefiniti.
Subito dopo l’approvazione dell’EMFA da parte del Parlamento europeo, Articolo 21 ha promosso un ricorso al TAR nel marzo 2024, sollevando dubbi sulla legittimità costituzionale dell’attuale procedura di nomina del CdA della Rai. La sorte di questo ricorso, coordinato dal costituzionalista Roberto Zaccaria, è ancora incerta: se non verranno introdotte nuove regole, il ricorso andrà avanti.
La spinta a liberarsi dalle prassi opache e bizantine dei partiti, per aprirsi alla società civile, è forte e comprensibile, tanto più che nei primi anni del secolo la società civile occidentale mostrava ancora una vitalità autentica, capace di organizzarsi e di farsi portavoce di diritti universali. Oggi il quadro è profondamente cambiato: la crisi della democrazia non riguarda più soltanto il ceto politico, ma si manifesta anche nell’astensionismo crescente e nel dilagare di populismi che hanno progressivamente svuotato di contenuto la dialettica tra Parlamento e società civile. Ciò nonostante, per garantire il pluralismo in tutte le sue espressioni è indispensabile assicurare un ruolo determinante, nel selezionare i membri del Cda, le realtà rappresentative del tessuto sociale, della collettività.
Pertanto, una volta riconosciuta la natura pubblica e istituzionale del servizio radiotelevisivo, diventa evidente che il ruolo centrale del Parlamento non può essere messo in discussione. Ciò non esclude, anzi richiede, un riequilibrio delle procedure e dei criteri di nomina dei membri del CdA, da attuare attraverso meccanismi più trasparenti, aperti e partecipati. In questo processo, l’apporto degli organismi rappresentativi della società civile può risultare particolarmente prezioso.
CdA tra Parlamento e società civile
Ad esempio, al posto delle imbarazzanti e farlocche autocandidature potrebbero essere proponenti dei candidati le associazioni culturali, gli ordini professionali, le università, le accademie e altri soggetti rappresentativi della società civile, sulla base di criteri chiari, oggettivi, e resi pubblici in anticipo. Il Parlamento eserciterebbe così un potere di nomina non più discrezionale, ma vincolato a un processo pubblico e regolato, in linea con quanto richiesto dall’articolo 5 dell’EMFA. Inoltre, il pluralismo sociale, culturale e regionale sarebbe sicuramente assicurato da un numero più ampio di consiglieri (negli anni d’oro della Rai, dal 1976 al 1993 erano addirittura 16). Una Commissione parlamentare piu’ snella manterrebbe la sua funzione di indirizzo.
A questo proposito, varrebbe la pena valutare il modello albanese, che prevede un Consiglio di amministrazione della radiotelevisione pubblica composto da 11 membri: dieci selezionati sulla base di un bando pubblico gestito da una commissione parlamentare che raccoglie candidature proposte da enti qualificati (università, ordini, associazioni, ecc.), garantendo equilibrio tra maggioranza e opposizione, e un presidente eletto separatamente, attraverso un meccanismo che assicura il confronto tra aree politiche, allo scopo di dare al governo solo un lieve vantaggio sulla minoranza. Il Parlamento mantiene dunque il ruolo decisionale, ma su una base selettiva pluralista e meno politicizzata. Un simile impianto, adattato al contesto italiano, consentirebbe di salvaguardare la legittimità democratica del Parlamento e, allo stesso tempo, di rispondere agli obblighi europei di trasparenza, imparzialità e indipendenza del servizio pubblico, rafforzando il rapporto tra istituzioni e società civile. Poiché la Rai è un’impresa inserita in un contesto competitivo internazionale, non è realistico pensare che una consiliatura di soli tre anni possa garantire la continuità necessaria per realizzare un piano industriale. Un orizzonte temporale di cinque anni è indispensabile non solo per assicurare efficacia e coerenza strategica, ma anche per rafforzare nei consiglieri il senso di appartenenza e di responsabilità istituzionale.”
Le risorse
Il tema del finanziamento della RAI è dirimente perché decide se il servizio radiotelevisivo rimane pubblico o scivola verso la privatizzazione. La giurisprudenza costituzionale qualifica il canone come imposta di scopo, cioè un tributo vincolato esclusivamente alla missione della RAI, sottratto alla discrezionalità del governo e non disponibile per altri capitoli di spesa. Il canone è un’imposta necessitata. La gestione delle risorse, proprio perché pubbliche, deve essere regolata da una legge primaria che stabilisca importo, criteri di adeguamento automatico e destinazione integrale al servizio pubblico; il Ministero dell’Economia può riscuotere il tributo per ragioni di efficienza ma non può deciderne né l’ammontare né l’utilizzo, che vanno amministrati da un organismo indipendente capace di riflettere il pluralismo sociale e politico. Questa impostazione, coerente con l’European Media Freedom Act, garantisce stabilità finanziaria e indipendenza editoriale, impedendo interventi come quello del 2015, quando l’esecutivo guidato da Renzi privatizzò RaiWay e sottrasse 150 milioni di euro destinati alla RAI. Un servizio pubblico radiotelevisivo è un’impresa pubblica autonoma, non un’azienda governata dall’esecutivo; solo un canone fissato e allocato per legge, con erogazione automatica e gestione pluralistica, assicura pluralismo, trasparenza, obiettività e imparzialità, proteggendo la RAI dalle contingenze politiche e dalle oscillazioni finanziarie del governo di turno. L’articolo 5 dell’EMFA prescrive, infatti, che gli Stati membri garantiscano ai fornitori di media di servizio pubblico l’indipendenza dal punto di vista editoriale e funzionale. Vale la pena di sottolineare la forza del termine indipendenza, una concetto che non è presente nelle sentenze della Corte costituzionale sul servizio pubblico.
La governance aziendale
La governance di un’impresa-istituzione come la Rai non si esaurisce con la nomina dei vertici istituzionali: il modello organizzativo e produttivo, e l’insieme di regole e procedure con cui l’azienda prende le decisioni e le mette in atto devono essere coerenti con gli obiettivi strategici e la mission. Per passare da una produzione di programmi radiotelevisivi destinati esclusivamente alla messa in onda e all’archiviazione nelle teche (nomen est omen!) all’ideazione e realizzazione di progetti destinati ad alimentare anche altri media, si è reso necessario il passaggio all’organizzazione per generi, un cambiamento che è avvenuto con almeno 15 anni di ritardo e del quale, a tre anni di distanza, non vi sono segni tangibili, risultati degni di nota. Di conseguenza, la prima e pressoché unica novità sta nel fatto che i direttori di genere hanno preso il posto e le risorse dei direttori di rete. Inoltre, sebbene il cuore del servizio pubblico, la sua legittimità stia nell’informazione, questo genere, non è stato toccato dalla riforma.
L’informazione come direzione di genere
Ci si lamenta della scarsa produttività e qualità dell’informazione della Rai, ma come si può pretendere di affrontare la rivoluzione digitale nei media con un modello organizzativo dell’informazione che risale al 1975, quando la Rai agiva in regime di monopolio e il termine digitale indicava un farmaco per i malati di cuore. Le testate della Rai, comprese quelle regionali, sono piccoli borghi medievali autarchici che producono di tutto, magari in concorrenza tra loro, in nome di un sedicente pluralismo che si esaurisce in linee editoriali un po’ più a destra, a sinistra e al centro.
Le direzioni di genere che hanno avuto il tempo e l’opportunità di consolidarsi hanno dato tutte risultati lusinghieri: da Rai Fiction, a Rai Cinema a Rai Educational (almeno fino al 2002). Che senso ha tenere in piedi questo arcipelago di testate giornalistiche di piccolo cabotaggio quando una direzione unificata dell’informazione suddivisa per sottogeneri (sport, inchieste, esteri, cultura, ecc.) ridarebbe slancio, qualità e motivazione al lavoro giornalistico nel servizio pubblico? In ogni caso la riorganizzazione per generi si potrà considerare conclusa solo quando le varie direzioni di genere avranno iniziato a ideare, progettare e realizzare programmi e prodotti per molti media, e i Direttori di canale potranno finalmente disporre dell’intera filiera dei generi per dare un’identità e una linea editoriale coerente, riconoscibile e orientata al pubblico di riferimento.
Liberare creatività
Il passaggio dalla monomedialità verticale, fatta di monadi che non comunicano tra di loro, alla intermedialità orizzontale implica un’osmosi costante, una stretta collaborazione tra le direzioni di genere: un’interdisciplinarietà che libererebbe creatività e favorirebbe la creazione di nuovi format e nuovi linguaggi; inoltre aumenterebbe la produttività perché da un solo progetto potranno nascere diversi prodotti per molti media.
Per chi ha lavorato dieci-vent’anni, e forse più, solo per la radio o la televisione trovarsi in una direzione di genere che per sua natura dovrebbe ideare e produrre per molti-media, è come imparare a usare il computer a cinquant’anni. Senza corsi di aggiornamento e formazione che aiutino questo cambiamento e coinvolgano tutti i dipendenti, dai giornalisti ai dirigenti, dagli impiegati ai tecnici e, in primo luogo ai sindacati, il passaggio alla media company di servizio pubblico rimarrà un’illusione: saranno sempre più diffusi atteggiamenti del tipo “Bartleby lo scrivano”, l’ineffabile impiegato creato da Melville che a ogni richiesta del suo capo rispondeva: “Preferirei di no”.
Un DG per la Media company
La riorganizzazione di un grande apparato della comunicazione alle prese con la rivoluzione digitale, prima ancora che un problema di ingegneria aziendale è una questione di politica culturale, riguarda innanzitutto il management, i membri del CdA e della Commissione parlamentare. Si tratta di un cambiamento radicale, non solo professionale ma anche di mentalità. Potrebbe, pertanto, rivelarsi utile, addirittura per legge, la nomina di un direttore Generale che abbia la delega a coordinare, indirizzare e portare a termine il passaggio dalla Rai “servizio pubblico radiotelevisivo e multimediale” – come se la multimedialità fosse solo l’ennesima monade da affiancare alle altre – a una moderna Rai media company di servizio pubblico.
È illusorio pensare che una radicale riforma organizzativa possa essere portata a termine senza disfarsi di strutture, profili professionali e modi di pensare anacronistici.
Le grandi aziende non sono autobus, la cui direzione può essere cambiata a discrezione dell’autista; somigliano piuttosto a un tram, dove non basta sostituire il conducente per modificarne il percorso. Finché il convoglio resta ancorato ai binari originari, continuerà a dirigersi, inesorabile, verso il medesimo capolinea. Per orientare davvero la missione, la qualità dei prodotti e il funzionamento interno, occorre smontare e riposizionare le rotaie: solo allora la Rai potrà tornare a essere la piu’ autorevole industria culturale del Paese. Articolo 21 continuerà a fare la sua parte, con proposte e iniziative concrete, per una Rai davvero indipendente.
