Ciò che sta accadendo in America, con l’ordine incostituzionale impartito all’università di Harvard di non ammettere più studenti stranieri e di espellere coloro che già vi studiano, in nome della difesa di una presunta “americanità”, precipita il paese un tempo faro dell’Occidente in un incubo che noi italiani conosciamo bene. Mai, infatti, avremmo immaginato di assistere a un provvedimento che ricorda le Leggi razziali mussoliniane del 1938 ai danni degli ebrei, con la pseudo-intellighenzia reazionaria nei panni dei novelli Telesio Internandi, direttore de “La difesa della razza”, il cui segretario di redazione, è opportuno ricordarlo, era Giorgio Almirante, punto di riferimento per alcuni dei principali esponenti del partito attualmente egemone in Italia.
Naturalmente, una simile schifezza non andrà mai in porto: non si troverà un solo giudice disposto a dare ragione agli autori di questo delirio razzista e discriminatorio. Ciò che conta, tuttavia, è il principio secondo cui si può stabilire chi abbia la possibilità di risiedere in una Nazione e chi no in base a elementi legati al colore della pelle, al Dio che si prega o alla propria madrelingua. Una revanche del suprematismo razziale, dunque, un trionfo del “sangue e del suolo”, un’esaltazione dell’orrore più assoluto, la fine delle illusioni e del ruolo stesso dell’America. Di fronte a uno scempio del genere, infatti, non c’è esecrazione di Putin o di Xi Jinping che tenga: i valori occidentali sono finiti e Trump e la sua corte dispotica li hanno seppelliti. Stiamo passeggiando ogni giorno in quello che, in un mirabile saggio-romanzo, Erik Larson ha definito “Il giardino delle bestie”, ambientato nella Berlino che incubava il nazismo.
Oggi questo giardino riguarda tutte e tutti noi, ne siamo parte e non ce ne rendiamo conto; anzi, stiamo assistendo a una pericolosa sottovalutazione della tragedia in atto. Pare quasi che Trump costituisca una parentesi, un momento di passaggio: sembriamo tanti Benedetto Croce, senza l’autorevolezza dell’originale, di fronte all’ascesa del fascismo, di cui poi diventerà a sua volta un oppositore, ma troppo tardi. Chi aveva capito tutto, invece, era Gobetti, il quale lo definì a, non a caso, “l’autobiografia della Nazione”. Ebbene, Trump costituisce oggi una sorta di autobiografia dell’Occidente: ci pone davanti allo specchio delle nostre contraddizioni, ci dice cosa siamo diventati e non dà adito a dubbi. Se la decadenza era iniziata già prima di lui, almeno dai tempi di Reagan, con lui si evolve, perché prima una parvenza di democrazia era necessaria, adesso la democrazia è considerata un intralcio: dai multimiliardari che aspirano all’immortalità e a trasferirsi su Marte e dai poveri terrestri che non arrivano alla fine del mese, sanno che la loro aspettativa di vita si sta riducendo e, in assenza di risposte concrete da parte della politica e dei partiti tradizionali, si rifugiano dell’estremismo, nelle promesse mirabolanti e negli inganni del nuovo ceto dominante, che li condurrà nel baratro illudendoli di starli rendendo nuovamente grandi.
Harvard è, quindi, la cartina al tornasole della contemporaneità, il punto di non ritorno, il momento in cui l’attacco alle istituzioni indipendenti compie il definitivo salto di qualità, passando dai singoli attori alle istituzioni: una Capitol Hill accademica, la stretta finale, l’aggressione che serve a educare gli altri, la soluzione finale nei confronti della cultura, della conoscenza e del sapere e, quel che è peggio, una mina posta sotto il diritto all’istruzione e la libertà della stessa.
Occhio, perché a furia di farne la parodia, ci siamo convinti che il fascismo fosse solo olio di ricino e manganello. Il fascismo, al contrario, era soprattutto la negazione della politica e della sua importanza, la perdita di indipendenza da parte di artisti, docenti universitari e giornalisti ma, più che mai, l’acquiescenza, il conformismo, la sottomissione, la servitù volontaria e il lasciar perdere, con drammatica indifferenza, mentre il manovratore fa scempio delle nostre vite e dei nostri diritti. Basta leggere le lettere dei condannati a morte della Resistenza per rendersene conto. In molti pongono l’accento proprio sul fatto che se stavano per essere uccisi, se eravamo ridotti così, era perché per troppo tempo si era pensato che la politica fosse una cosa sporca o da delegare a un’oligarchia. E invece la politica siamo noi, com’è scritto nel primo articolo della Costituzione, e opporsi non solo a Trump ma al trumpismo globale dilagante è oggi un dovere culturale, morale e civile dal quale non ci si può esimere. Perché ora rocca ad Harvard ma domani toccherà a qualcun altro, e quel domani è adesso. E quando dovesse toccare a noi, il rischio che non sia rimasto nessuno a protestare è concreto.