8 marzo in Africa, la difficile vita delle donne “salvate” dalla loro resilienza

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Essere donna in Africa non è cosa semplice. Può essere faticoso e doloroso. Ma anche entusiasmante. La resilienza al femminile nel continente africano significa rinascita, forza e bellezza.
Sono sempre di più le africane che si distinguono in vari ambiti con successo e che rappresentano delle vere avanguardie in un contesto socio – economico dove le donne restano troppo spesso relegate in secondo piano o confinate in ruoli tradizionali.
Sono giovani, brillanti, piene di coraggio e di determinazione la maggior parte delle giovani africane ma tante altre, nei paesi in cui sono in corso conflitti o che non offrono loro opportunità di emanciparsi, continuano a subire violenze e violazioni dei loro diritti.
Ed è per questo che oggi, 8 marzo, nel celebrare la Festa internazionale della donna, è doveroso cogliere  l’occasione per riflettere sulla condizione femminile in Africa. Secondo le statistiche fornite dalle Nazioni Unite, in campo lavorativo, solo il 9% dei manager africani è di sesso femminile. Poco più del cinquanta per cento delle donne in età lavorativa ha un’occupazione (contro l’ottanta per cento degli uomini). Non va meglio nel campo politico, dove si registra ancora un’emarginazione palese in molti paesi del continente. Soltanto il 28% dei parlamentari africani è donna. Le donne sono poi vittime di antiche e nefaste tradizioni come le mutilazioni genitali (che in Paesi come la Somalia toccano quasi tutta la popolazione femminile), la poligamia, i matrimoni precoci e . Nonostante questo però si registrano segnali incoraggianti, soprattutto dal punto di vista dell’attivismo dove le donne riescono a ritagliarsi ruoli di primo piano.
Una in particolare, Vanessa Nakate, ugandese, 27 anni, porta avanti un grande lavoro di sensibilizzazione ma anche di denuncia delle ingiustizie e delle diseguaglianze che condannano le popolazioni più vulnerabili a pagare il prezzo più alto della crisi climatica.
«I mari che si innalzano non aspettano. La siccità non aspetta. La carestia non aspetta. Siamo fuori tempo massimo!», ha affermato con forza a Sharm el-Sheikh, in occasione della Cop27, la Conferenza delle parti delle Nazioni Unite dedicata al clima, durante la quale ha chiesto che vengano risarciti i Paesi più colpiti dalla crisi climatica, che spesso sono già i più poveri e fragili.
Ma Vanessa non è l’unica in Africa a portare avanti queste battaglie che peraltro erano già state intraprese molti anni fa da una donna visionaria, coraggiosa e tenace: Wangari Maathai, ambientalista ante litteram, nonché prima donna africana a vincere il Premio Nobel per la pace nel 2004, per la sua lotta a difesa dell’ambiente e a favore delle donne. Dopo di lei, avevano ricevuto il prestigioso riconoscimento anche le liberiane Johnson Sirleaf e Leymah Gbowee. Con il loro impegno e la loro tenacia, le loro battaglie e i loro successi continuano a rappresentare un esempio significativo per molte altre donne africane, una speranza di non essere confinate nello spazio domestico, di poter accedere all’istruzione e alle cure sanitare, di poter scegliere per la propria vita e di essere riconosciute per il ruolo fondamentale che svolgono nelle comunità.
È quello che cercano di fare ancora oggi le molte “eredi spirituali” di Wangari Maathai, che peraltro era scesa in campo anche in politica, candidandosi per la presidenza del Kenya, prima donna, anche in questo ambito, ad affrontare una simile sfida. Deceduta nel 2011, oggi il suo lavoro viene portato avanti dalla figlia Wanjira Maathai, esperta per l’Africa del think-tank«World Resources Institute» e da molte altre giovani come Gloria Majiga-Kamoto, del Malawi, oggi trentenne, che da diversi anni combatte per porre fine, in particolare, all’utilizzo della plastica monouso. Nel 2021 è stata insignita del prestigioso Goldman Environmental Prize, conosciuto anche come “Premio Nobel per l’ambiente”.
Nell’impegno di queste donne, i temi ambientali si intrecciano sempre – e inevitabilmente – con le questioni dei diritti e della parità di genere. Che purtroppo hanno fatto molti passi indietro a causa della pandemia da Coronavirus o meglio delle misure prese per contrastarla. Una delle conseguenze più drammatiche, infatti, – oltre a quella sanitaria ovviamente – è stato l’abbandono scolastico di milioni di bambini e soprattutto di bambine. Secondo l’Unesco, la chiusura delle scuole in 185 Paesi del mondo «ha colpito in modo sproporzionato le ragazze adolescenti, rafforzando ulteriormente i divari di genere nell’istruzione e portando a un aumento del rischio di sfruttamento sessuale, gravidanze premature e matrimoni precoci e forzati».
Theresa Kachindamoto, nel suo Paese, il Malawi, è un’altra importante attivista impegnata in prima linea contro i matrimoni di ragazzine che talvolta hanno solo 12 o 13 anni. Un fenomeno che è cresciuto esponenzialmente durante il lockdown, quando il numero delle adolescenti “messe incinte” è aumentato significativamente e molte di loro sono state date in sposa. Quello dei matrimoni precoci riguarda ancora oggi il 47% delle ragazze sotto i 18 anni, ma anche moltissime adolescenti del Malawi (e non solo!).
Allo stesso modo è ancora estremamente diffusa un’altra pratica aberrante, quella delle mutilazioni genitali femminili. Anche in questo campo, tuttavia, è cresciuto moltissimo il numero delle attiviste che si battono per abolirla. Una di queste è Musu Bakoto Sawo, trentenne gambiana che ha vissuto sulla sua pelle questo dramma, così come quello del matrimonio-forzato. Ma dal Senegal alla Somalia, attraversando tutto il Sahel, sono molte le donne che provano coraggiosamente a scardinare tabù e a combattere questa forma di violenza.
Tutto questo attivismo si traduce anche in una maggiore partecipazione in campo politico, dove è possibile trovare molte giovani africane emergenti. Un esempio è Murunwa Mutele, che in Sudafrica sfida apertamente il patriarcato e difende la necessità di una maggiore presenza delle donne in politica. Mentre il Ruanda si conferma, ormai da diversi anni, primo Paese al mondo per numero di parlamentari donne (61,3%).
Il discorso si potrebbe ampliare anche a tutto il mondo culturale (letteratura, arte, cinema, comunicazione…) ed economico-imprenditoriale, in cui si stanno facendo largo figure interessantissime, talvolta riconosciute a livello mondiale.
Sono molte di più, tuttavia, le donne africane che, in maniera silenziosa e spesso anonima, operano dal basso, sostenendo gran parte dell’economia informale e del settore agricolo e garantendo stabilità in contesti sconvolti dai conflitti. Sono ancora loro a tenere in piedi l’Africa.

Credits photo Brookings


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