“Senza se e senza ma”. Censure, autocensure e bavagli

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Nel 2007 papa Ratzinger non poté intervenire all’inaugurazione dell’Anno Accademico dell’università di Roma “La Sapienza” per l’uso e l’interpretazione che aveva espresso di un pensiero di Feyerabend: siccome sembrava che, nel riferirvisi, il papa non avesse sufficientemente rispettato lo scienziato Galileo Galilei, allora i professori in toga levarono alti lai di protesta e indignazione. Polemica!
Santità, non è il caso.
Si parva licet, molto più recentemente toccò allo scrittore Paolo Nori, invitato a tenere una serie di lezioni su Dostoevskij dall’Università milanese della Bicocca. Era da poco scoppiata la guerra in Ucraina e si scoprì che l’autore dei Karamazov era russo. Morto nel 1881, ma russo. E siccome “c’è un aggressore e un aggredito” e l’aggressore era russo, allora anche Dostoevskij è un reprobo, della schiatta degli aggressori. Caro Nori, non è il caso.

La scorsa primavera toccò a Carlo Rovelli, il fisico teorico e divulgatore.
Dal palco del Concertone del 1 Maggio, parlando proprio della guerra in Ucraina, aveva criticato con durezza la politica filoatlantica del nostro governo. Invitato a rappresentare l’Italia alla Fiera del libro di Francoforte nel 2024, fu ricusato da Ricardo Franco Levi, il Commissario straordinario del governo per l’evento, con una mail che il professore rese pubblica. Fumo e rumore. Polemica! Levi, in verità, ci ripensò ma poi fu sostituito da Mauro Mazza, che proprio oggi ha ribadito l’invito a Rovelli per il 2024.
Crosetto fu magnanimo: professore, venga a cena.

Nei giorni più recenti un altro episodio esemplare.
Alla scrittrice palestinese Adania Shibli, autrice del libro “Un dettaglio minore”, era stato assegnato il premio ‘LiBeraturpreis’, riservato ad autori e autrici del Medio Oriente, dell’Africa e dell’Asia. Le sarebbe stato consegnato il 20 ottobre, durante la prestigiosa Fiera del libro di Francoforte. Bella la motivazione:
l’opera “racconta il potere dei confini e ciò che i conflitti violenti causano alle e con le persone. Con grande attenzione, dirige lo sguardo verso i piccoli dettagli, le banalità che ci permettono di intravedere le vecchie ferite e cicatrici che si trovano dietro la superficie”. Caspita, quanto è appropriato! O no?
No. Perché il 7 Ottobre Hamas sguscia fuori da Gaza e fa strage in Israele: è guerra.
Così Jürgen Boos, direttore dalla Buchmesse, coglie al volo l’occasione: la guerra in Medio Oriente – non proprio una novità, peraltro – lo spinge a “rendere le voci ebraiche e israeliane particolarmente visibili alla fiera del libro”. Loro sì, lei no.
Signora Shibli, rimandiamo.

Ancora. Moni Ovadia, artista a tutto tondo, dirige il teatro Comunale di Ferrara.
Dopo la fiammata terroristica di Hamas, aveva dichiarato che “Israele lascia marcire le cose, fingendo che il problema palestinese non esista, per cancellare la stessa idea che i palestinesi esistano; e la comunità internazionale è complice: questi sono i risultati. Questa è la conseguenza di una politica di totale cecità, di occupazione e colonizzazione”. Apriti cielo! Come si permette di criticare Tel Aviv? Un ebreo apostata, un eretico, un… un… un… E così Ovadia se ne andrà.
Si dimetta, direttore.

Censure, autocensure e bavagli abbondano, in questo sempre più violento scorcio di Terzo Millennio, anche dove non te lo aspetti. In Francia il caso di Ariane Lavrilleux, giornalista investigativa che scrive (anche) su “Disclose” [LINK https://disclose.ngo/fr/], è stata tenuta in stato di fermo per 39 ore e il suo appartamento è stato setacciato dai servizi segreti di Macron perché aveva rivelato gli affari di Parigi con Al-Sisi, l’autarca egiziano in divisa. Nel paese che sventola il vessillo “Liberté-Egalité-Fraternité”, mica nel Cile di Pinochet. Così come Julian Assange è ancora detenuto nelle carceri di Sua Maestà Carlo III per aver portato sotto i nostri occhi le manovre oscure del potere militar-industriale (USA e non solo) in Iraq, in Afghanistan, ovunque. Così come, ancora, i negletti prigionieri di Guantànamo sono detenuti da vent’anni senza processo.
Vent’anni in tuta arancione? Ma cambiatevi d’abito, santiddio!

Un mondo di gabbie e di bavagli, di violenze legittimate dalla paura, di guerre radicate nel rifiuto preventivo di ascoltare le ragioni altrui.
C’è una frase, un modo di dire, che spesso viene utilizzato in queste occasioni e che secondo me è da porre alla base di questo scempio orrendo della ragione. La frase che troviamo, all’indomani di episodi cruenti e violenti, di aggressioni e assalti, di esplosioni e agguati che ci fanno sempre inorridire, ma mai purtroppo ragionare.
L’abbiamo letta spesso nei titoli dei giornali, l’abbiamo ascoltata nelle dichiarazioni di politici e opinionisti, l’abbiamo persino pronunciata, infervorati, (ma allo stadio).

La frase, che poi non è neppure una frase perché priva del verbo, è questa: “senza se e senza ma”.
Che cosa vuol dire?
Significa semplicemente che, quando rinunci a porre domande e a metterti in discussione, se già pronto a indossare l’elmetto e a imbracciare un fucile. Hai già una divisa addosso e non te ne accorgi nemmeno.
(Nella foto Moni Ovadia)


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