L’Olocausto e noi

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Non avremmo mai voluto vivere giorni tragici come quelli che stiamo vivendo. A ottant’anni dal rastrellamento del Ghetto di Roma e a cinquanta dalla guerra dello Yom Kippur, ancora una volta il popolo ebraico è sotto attacco. E qui è bene mettere in chiaro le cose fin da subito: sostenere la tesi “due popoli-due Stati” e manifestare la propria contrarietà nei confronti del governo di estrema destra presieduto da Netanyahu, ora costretto a varare un esecutivo di unità nazionale, non significa negare il diritto di esistere dello stato di Israele. Significa, semmai, affermare la necessità che nasca e venga riconosciuto anche lo stato di Palestina, che vengano ritirati alcuni insediamenti di matrice coloniale e che si torni alle politiche di Rabin ma persino di Sharon, falco della destra israeliana ma assai più intelligente e realistico degli attuali vertici politici e militari che decidono in quel contesto.
Vediamo anche noi i rischi connessi a un risorgente anti-semitismo in Europa e assistiamo con sgomento a determinate manifestazioni. Tuttavia, vorremmo che fossero chiari due aspetti. Il primo è che la democrazia, a differenza di qualunque regime dispotico, può anche criticare ma comunque accoglie e integra il pensiero alternativo, compreso il più urticante e sgradevole. Il secondo è che se queste riflessioni di puro buonsenso sono oggi contrastate e messe alla berlina da alcuni soloni, che non perdono occasione per dimostrare la propria ignoranza e la propria malafede, è perché è dilagato troppo odio nel mondo, al punto che qualsivoglia posizione pacifista e volta all’uguaglianza è vista con sospetto. No, decisamente non è una stagione adatta ai sostenitori del dialogo e del confronto e ce ne accorgeremo, a nostre spese, alle Europee del prossimo giugno.
Come italiani, però, nel giorno in cui si ricorda la deportazione di milleduecentocinquantanove persone dalla Capitale, di cui ne tornarono da Auschwitz solo sedici (una sola donna: Settimia Spizzichino), non possiamo non riflettere con mente libera sulle nuove barbarie che si stanno abbattendo sul pianeta. Non possiamo piegarci anche noi alla propaganda, alla tifoseria, alla negazione della verità. Non possiamo accordarci a quanti dicono di voler sostenere Israele ma, in realtà, coscienti o meno che siano, stanno auspicando una strage. E non possiamo commettere, a nostra volta, l’errore di identificare un intero popolo con il suo governo, come invece fanno sia coloro che non riescono a distinguere Netanyahu dagli israeliani, che gli sono in gran parte ostili, sia coloro che si rifiutano di separare Hamas dai palestinesi e dalla popolazione di Gaza. Se pensiamo che la gente di Gaza sia ostaggio di un’organizzazione disdicevole, ed è così, non possiamo sostenere il contrario un minuto dopo solo per convenienza. Piegare la tragicità di un momento devastante a miserabili interessi di bottega, magari per regolare i conti della nostra quasi mai seria politica interna, infatti, è inammissibile.
Mentre il mondo brucia, abbiamo il dovere della memoria di ciò che è stato, affinché l’imperativo di non dimenticare mai si trasformi in una missione civile e non soltanto in un proclama da sfoggiare quando non si ha altro da dire.
Quanto a noi, abbiamo il dovere ulteriore di seguire la vicenda con lo sguardo attento e partecipe di chi si fa carico del dolore altrui, osservando ogni singolo avvenimento sia con i nostri occhi che con quelli del presunto nemico, come ci ha insegnato a fare David Grossman, che nella guerra del 2006 contro il Libano vide morire il figlio Uri a soli ventun anni.
Scrive Grossman: “La mia ipotesi: Israele dopo la guerra sarà molto più di destra, militante e anche razzista. La guerra che le è stata imposta imprime nella sua coscienza gli stereotipi e i pregiudizi più estremi e odiosi che definiscono — e continueranno a definire in modo sempre più profondo — la fisionomia dell’identità israeliana, identità che d’ora in poi includerà anche il trauma dell’ottobre 2023. E il carattere della politica di Israele, la polarizzazione, la spaccatura interna.
Sabato 7 ottobre 2023 è davvero andata perduta per sempre, o si è congelata per molti anni, la minuscola possibilità di un dialogo vero, della riconciliazione con l’esistenza dell’altro popolo? Cosa dice adesso chi sbandierava la sciagurata idea dello “stato binazionale”? I due popoli, israeliano e palestinese, due popoli snaturati da una guerra senza fine, non sono nemmeno capaci di essere cugini e qualcuno crede ancora che possano essere gemelli siamesi?
Dovranno passare molti anni, anni senza guerre, prima che si possa pensare a una riconciliazione, a una guarigione. Nel frattempo, possiamo solo immaginare l’intensità delle ansie e dell’odio che ora schizzeranno in superficie. Spero, prego, che ci siano palestinesi in Cisgiordania che, nonostante l’odio nei confronti dell’Israele occupante, vorranno prendere le distanze, nelle azioni o con una condanna, da quanto hanno commesso membri del loro popolo. Io, come israeliano, non ho il diritto di fare prediche e di dire loro cosa fare. Ma come individuo, come essere umano, ho tutto il diritto — e il dovere — di esigere che si comportino in modo umano ed etico”.
Ce lo auguriamo di cuore anche noi. E capiamo forse, amaramente, per quale motivo non gli sia stato ancora assegnato il Nobel per Letteratura che meriterebbe più di chiunque altro.

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