Israele e Palestina, i toni del giornalismo

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Ieri sono stata ospite di una trasmissione che parlava di Israele e Palestina. Non importa quale fosse la trasmissione né chi fossero gli ospiti. Poteva essere un qualsiasi contesto giornalistico. Non vivendo particolarmente l’ambiente televisivo italiano e il loro modo di fare giornalismo, sono rimasta abbastanza toccata da come, a fronte di fatti, si alzi la voce per sovrastare quella dell’altro o dell’altra, e per alla fine zittirla se quello che viene detto non è quello che si vuole sentire. Come se dissentire non sia accettabile. Video alla mano, non ho mai interrotto nessuno, non ho mai borbottato mentre altri parlavano, posso aver fatto qualche faccia, perché i miei gli occhi vivono di vita propria – ma lo sanno anche i sassi. Quando invece ho parlato io, un minuto e mezzo su mezz’ora di trasmissione durante la quale non ho più parlato, non è mancato chi ha detto ripetutamente che non era vero quello che dicevo e che non ero mai stata in Israele e Palestina.

Sono stata attaccata: io e il mio lavoro. Devo ammettere, non sono abituata: essendo un po’ naif, in questi 27 anni in cui scrivo e racconto il mio lavoro, è stato sempre lineare. Storie, interviste, posti. Quello che ho scritto l’ho sempre vissuto in prima linea. Mettendoci passione, onestà e – ma questo lo giudicano gli altri – competenza. I “non è vero” degli altri mi colpiscono, perché mi sembra impossibile non riuscire a ragionare con le persone ed essere travolta dalla voce alta di chi si vuole imporre con la prepotenza senza che nessuno degli altre persone presenti dicesse neanche un “abbassiamo i toni, parliamo e ragioniamo”.

E da questo devo trarre una lezione, perché a volte analizzando le piccole cose si ha l’occasione comunque di fare il proprio lavoro. Devo aggiungere che il conduttore – che poi deve averci riflettuto o qualcuno glielo ha fatto notare – oggi mi ha chiamata per scusarsi e siamo finiti a discutere di nuovo, ma non è la discussione che mi spaventa, figuriamoci, sono stati i modi vissuti in trasmissione. E soprattutto la mia preoccupazione riguarda quello che è arrivato a chi guardava: se ha una sola voce, non può farsi un’idea. Non dico che avevo ragione, non ce l’ho quasi mai, ma ho lo stesso diritto dell’altro di potermi esprimere e tutti devono avere un tempo uguale per farlo. Soprattutto se sono stata invitata proprio per il lavoro che faccio. Non passavo di lì per caso.

Errore mio aver accettato, sapendo chw la questione Israelo-Palestinese è un tema dove non si riesce a ragionare. Lo so da anni e da anni svicolo queste situazioni, ma ieri ci sono cascata, forse perché sono molto sofferente per quello che sta succedendo a Gaza, per i sette colleghi morti, per quello che stanno vivendo le persone da una parte e dall’altra. E per quel discorso che parla di pace, che forse solo il papa riesce a fare perché non lo può interrompere nessuno. Io non sono neanche riuscita a pronunciarne quella parola.

I temi
Ma veniamo agli argomenti sui quali sono stata ripresa, nel fuori onda in particolare. Che l’attacco di Hamas di sabato fosse da condannare (anche se i giornalisti raccontano, non condannano) siamo tutti d’accordo. Ma se dobbiamo condannare allora bisogna farlo a 360 gradi: come il bombardamento di zone residenziali, le scuole gli ospedali da parte di Israele. E i bambini e le bambine palestinesi valgono quanto i bambini israeliani. Apriti cielo.

“Negli ospedali, nei palazzi, nelle scuole ci sono i militanti di Hamas, si nascondo tra le gente, se vengono uccisi civili è perché Hamas si nasconde tra la gente”, replica qualcuno e non perché qualcuno sta radendo al suolo la striscia di Gaza.

L’Alto commissario Onu per i diritti umani, Volker Türk, ha precisato che un assedio, che metta a repentaglio la vita dei civili privandoli dei beni di prima necessità, è vietato dal diritto internazionale.

Non lo dico io. Lo dice l’ONU. Poi ho osato dire che due milioni di persone assediate per 17 anni, e che Israele decide se possono uscire a curarsi il cancro quando vogliono loro, non quando vogliono i malati, se possono avere acqua, se possono avere cibo, se possono avere elettricità, “Non è vero, non sono assediati da Israele ma da Hamas”, mormora qualcuno.

9mila malati di cancro a Gaza – tra cui 350 bambini – soffrono di “condizioni catastrofiche dovute alla carenza cronica di medicinali e protocolli di trattamento”. Israele ha bloccato 272 delle 1.000 richieste di permesso presentate lo scorso anno dai residenti di Gaza per recarsi all’estero per cure, cosa che ha provocato la morte di tre bambini, ha detto il gruppo per i diritti umani PCHR

Non lo dico io. Lo dice il PCHR.

Ho anche osato dire che Hamas è funzionale alla destra israeliana, apriti cielo, ma è stato le stesso Netanyahu a dire in più occasioni che l’unico modo per cancellare l’autorità palestinese era nutrire Hamas a Gaza.

“Netanyahu vuole Hamas in piedi ed è pronto a pagare un prezzo quasi inimmaginabile per questo: metà del paese paralizzato, bambini e genitori traumatizzati, case bombardate, persone uccise”, ha scritto nel maggio 2019 la ministra israeliana dell’Informazione, Galit Distel Atbaryan quando doveva ancora entrare in politica, ma era conosciuta come una importante sostenitrice di Netanyahu.

Lo stesso Netanyahu aveva ammesso in una riunione del Likud che “chiunque vuole ostacolare la creazione di uno Stato palestinese, deve sostenere il rafforzamento di Hamas. Questo fa parte della nostra strategia, isolare i palestinesi di Gaza dai palestinesi di Giudea e Samaria”.

Ripeto non lo dico, lo dicono gli israeliani. Demonizzare i palestinesi rendendoli civili di serie B e in balia di Hamas non aiuta una narrazione corretta e informata. Ho dato anche un altro numero, 600 attacchi di coloni israeliani nei territori palestinesi solo quest’anno. “Non è vero”, mi è stato detto, ma non lo dico io, lo dice l’Onu

L’ONU ne ha documentati 591 attacchi di coloni israeliani finora quest’anno che hanno provocato vittime e danni a proprietà. La media mensile per i primi sei mesi del 2023 è superiore del 39% rispetto alla media mensile degli incidenti legati ai coloni in tutto il 2022.

“E poi gli israeliani fanno i processi, chi fa del male, viene punito anche dell’esercito”, dice qualcuno.

Yesh Din, organizzazione israeliana, ha analizzato la risposta delle autorità israeliane agli attacchi dei coloni contro i palestinesi della Cisgiordania occupata (che secondo il diritto internazionale umanitario dovrebbero essere “una popolazione protetta”) nel periodo 2005-2022. In quegli anni sono stati aperti fascicoli su 1597 casi di violenza da parte di civili israeliani contro civili palestinesi. Particolare importante: l’indagine non ha riguardato anche Gerusalemme Est occupata.
Di questo totale, 1531 indagini sono state portate a termine, ma per essere chiuse: si è proceduto a incriminazioni solo in 107 casi, ossia il 7%. Di 91 dei 107 casi si conosce l’esito: 46 condanne. Ricapitolando, solo il 3% delle indagini aperte dal 2005 su violenze dei coloni israeliani contro i palestinesi è terminato con una condanna degli imputati.
Non lo dico io, lo dice Yesh Din e me lo conferma Amnesty International che ho contattato.
Dal 2008 al settembre 2023, sono stati registrati 6.407 palestinesi uccisi, più della metà attraverso attacchi missilistici. Nello stesso periodo, l’ONU ha registrato la morte di 308 israeliani in situazioni di conflitto. Nelle carceri israeliane alla fine di giugno 2023, l’Israel Prison Service (IPS) deteneva 4.499 palestinesi in detenzione o in prigione per motivi che ha definito di “sicurezza”, di cui 183 provenienti dalla Striscia di Gaza.

A quel tempo, l’IPS deteneva anche 850 palestinesi, 3 dei quali provenienti dalla Striscia di Gaza, perché si trovavano illegalmente in Israele. Alla fine del 2020, l’IPS ha adottato una nuova politica e ha smesso di fornire a B’Tselem, un organizzazione per i diritti umani israeliana, le cifre richieste. Inoltre, a volte, alcuni palestinesi vengono brevemente trattenuti in strutture militari. I dati provenienti dai militari vengono ricevuti con notevole ritardo e non offrono dettagli sulla posizione giuridica dei detenuti. I seguenti dati sono stati forniti o pubblicati dai militari e dall’IP.

Non lo dico io, lo dice una organizzazione israeliana conosciuta e rispettata come B’Tselem. E a questo punto mi spengo. Perché non posso discutere con chi sostiene a fronte dei fatti che la terra sia piatta. Però il discorso mi interessa, perché penso alla forza dell’ideologia e alla giustificazione che le persone possono avere a fronte della sofferenza e del dolore.

Eppure chi lo prova perché non riesce a capire anche il dolore dell’altro? Come si può fare differenza tra un bambino di tipo A e uno di tipo B? Come si può pensare che un popolo tenuto sotto assedio per più per quasi 17 anni, dove tra l’altro la metà è al di sotto dei 18 anni, possa crescere in armonia col mondo e con la vita? Ripeto, questo non giustifica le azioni criminali di Hamas, (dove la maggior parte dei militanti che hanno valicato il muro sono peraltro stati uccisi in quella che di fatto è stata un’ampia operazione suicida, altra cosa che si omette di dire).

Il punto è che dovremmo fare giornalismo e se i fatti non bastano, ci vorrebbe almeno un distacco professionale che concede il beneficio del dubbio agli uni agli altri. Una storia va raccontata nel suo contesto anche se alcuni aspetti non ci piacciono. Poi si possono avere opinioni, ma non bisogna spacciarle per verità assoluta. Il nostro lavoro non è dimostrare la nostra tesi, semmai provarla, ma ancora di più permettere alla gente di formarsi un’opinione indipendente. E capire quanto la guerra sia sporca, viscida e mai come nel conflitto israelopalestinese, parlare di verità, è come puntare gli occhi verso un orizzonte irraggiungibile. Da sempre.

Ma oltre all’essere stata offesa, quando ho parlato di aggressione, ovviamente verbale: mi è stato detto, “no, aggressione non si può dire”, ma conta la sensazione di chi l’ha vissuta o di chi là perpetrata? A casa mia, chi la vive. E anche questa è un’altra lezione, la diversità di percezione. Probabilmente è così poco importante confrontarsi educatamente che neanche si rendono più conto. Siamo abituati agli Sgarbi e a tutti quelli che sono funzionali a movimentare un dibattito con i volti contorti in una smorfia. Capisco che un talk deve fare audience, ma davvero questo piace alla gente che sta a casa? Forse sì, ma allora mettiamoci i guantoni e prendiamoci a pugni solo perché la gente chiede più sangue che cortesia.

Posso anche scannarmi coi talebani, con i palestinesi e con gli israeliani, ma non a casa mia e soprattutto quando vengo invitata. Forse ho l’indole british, dove ci si confronta, non ci si scontra. Chi mi conosce, sa che sono tutto tranne che fragile, ma non ero preparata – colpa mia – a dover combattere in un posto che avrebbe dovuto accogliere la mia esperienza e quella degli altri per arricchire chi guardava. Così non è stato, anche se poi i centinaia di messaggi che mi sono arrivati, mi raccontano che il mio breve intervento, è stato apprezzato. La cosa che mi è dispiaciuta di più, è che sono convinta che in quella mezz’ora non abbiamo trasmesso niente che facesse capire alla gente quello che sta succedendo in una delle zone più martoriate del mondo.

A me questo lavoro piace. Non lo faccio per essere riconosciuta per strada o per voler imporre quello in cui credo, ma perché penso che il giornalismo sia un modo per far crescere una società civile più consapevole. Per denunciare i soprusi, per far sapere quello che accade nel mondo. Non si fa l’inviato in zone di crisi perché è una bella cosa raccontare la guerra, ma per mostrare quanto faccia schifo e forse dare strumenti all’opinione pubblica perché ragioni su come non sostenere ritorsioni e vendette.

Nel caso del conflitto israelopalestinese, stare da una parte o dall’altra non ci mette una medaglia al petto, ci impedisce di guardare, pensare, capire se ci sono ad altre strade oltre la guerra. E, mi dispiace, non sarò mai né come giornalista né come essere umano, una giustificatrice della violenza.

I contenuti on line
Vado oltre, mettiamo via questa esperienza alla quale non sono riuscita ad offrire nulla, e mi muovo tra i video dei social, a volte sono affascinata da quello che si può trovare, e c’è un video diventato virale che mostra un combattente di Hamas che abbatte un elicottero israeliano, sembra vero, e per molti lo sarà, fino a che non si scopre, andando un po’ a fondo, che è solo una clip del videogioco Arma 3. Un video che gira sui social, che mostra una donna israeliana aggredita a Gaza, è stato girato nel 2015 in Guatemala. Un messaggio vocale non verificato che circola su WhatsApp, insieme alla nota “inoltrata molte volte”, afferma che un ufficiale militare ha dato istruzioni agli israeliani di fare scorta di contanti, carburante e generi alimentari. Account falsi che si spacciano per giornalisti della BBC e del quotidiano Jerusalem Post, hanno diffuso ampiamente informazioni false prima di essere sospesi da X (precedentemente noto come Twitter).

Mi mette i brividi sapere che c’è gente assunta per creare o diffondere immagini per manipolare le persone, avere opinioni è lecito – anche se sono una sostenitrice dello sforzo di obiettività del giornalista- ma anche questa è un’opinione. C’è una vera e propria azione per falsificare quello che succede come se non bastassero i fatti, a sostenere alcuni eventi rispetto agli altri. Sulla scia dell’attacco a sorpresa di Hamas contro Israele e dell’escalation di guerra nel fine settimana, le piattaforme di social media e le app di messaggistica sono inondate di voci virali, immagini e video fuorvianti e vere e proprie falsità, rendendo difficile capire per le persone in Israele, Gaza e in tutto il mondo alla ricerca di informazioni e fatti sul conflitto.

Parte del nostro lavoro, dovrebbe essere filtrare, verificare, essere sicuri di quello che esce, perché è importante accompagnare un lettore verso vari punti di vista, la pluralità della stampa dovrebbe permetterlo, ma quando non si distingue più il giornalismo dalla propaganda, è il potere che ha vinto e tutti noi abbiamo perso. E ieri ho perso io, perché ho sentito di non essere riuscita a fare il mio lavoro. Quindi me ne resto a Radio Bullets, anzi mi preparo a scendere nel cuore del conflitto, perché la Storia non la racconto seduta dietro ad una scrivania, ma preparando il mio trolley rosa.
(Da Radio Bullets)


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