L’uso politico della storia, il governo Meloni e Mitridate

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Non è una novità l’uso del passato come un arsenale di suggestioni, miti e vicende da introdurre nel dibattito e nell’immaginario pubblico per nobilitare il presente e legittimare identità e forze politiche. Ma l’impaziente riscrittura del passato, avviata in questi ultimi mesi dal governo Meloni per bocca di diversi suoi rappresentanti, costituisce certo un caso particolarmente significativo se non eclatante.

Riepiloghiamo qualche modalità e momento-chiave. Anzitutto le omissioni. Se nel Giorno della memoria si parla, come hanno fatto le massime cariche del Parlamento, della Shoah quale «abisso dell’umanità», «deliberato piano nazista di persecuzione e sterminio del popolo ebraico» (Meloni) si scarica tutta la responsabilità storica di quell’ «orrore» sul nazismo tedesco e si omette di ricordare il pieno allineamento dei fascisti italiani ai loro alleati tedeschi, si tace il fatto cruciale che la deportazione dall’Italia di cittadini ebrei (ne sono stati identificati 7579) e – non dimentichiamolo – di oppositori antifascisti e di partigiani (almeno 23.826), fu possibile grazie alla collaborazione fattiva e zelante della Repubblica di Salò, volenteroso braccio operativo degli occupanti tedeschi tra l’autunno del ‘43 e la primavera del ‘45. Quando poi si citano come padri e maestri ideali del partito ora al governo figure come Giorgio Almirante e Pino Rauti, si evocano attori riconosciuti proprio di quella fattiva collaborazione. E dunque la contraddizione è stridente.

Più delle omissioni colpiscono le affermazioni in positivo. Come quando in visita alle Fosse Ardeatine si spiega che l’eccidio ha colpito «335 italiani innocenti massacrati solo perché italiani» (Meloni), si attribuisce l’evento all’odio anti-italiano e ancora una volta ai tedeschi occupanti. Anche qui la distorsione della realtà storica sta nel tacere che quelle vittime erano 335 fra detenuti politici (civili e militari), ebrei o semplici sospetti di opposizione politica, scelti dalle autorità tedesche, capeggiate da Kappler, d’intesa col questore fascista di Roma Pietro Caruso. Furono trucidati antifascisti, veri o presunti, ed ebrei, che si trovavano in carcere quali nemici del nazifascismo. Non erano italiani qualsiasi.

Mirko Basaldella, Modello per il cancello delle Fosse Ardeatine ( Udine, casa Cavazzini)

Talora la distorsione colpisce per disinvoltura. Come quando il presidente del Senato, Ignazio La Russa, descrive i componenti del Battaglione Bozen, obiettivo dell’attentato di via Rasella a Roma, come inoffensivi, anziani membri di una banda musicale (31.3.’23). La smentita non era difficile: si trattava di un battaglione di polizia, armato, composto da altoatesini che avevano optato per la cittadinanza tedesca, stava ultimando il suo addestramento in funzione anti-partigiana, l’età media dei suoi membri era di 35 anni.

Lo stereotipo, anche se scontato e da tempo smontato in sede storiografica, viene spesso in aiuto in questa collettiva opera di riscrittura strumentale del nostro passato. E’ il caso del ricorso del viceministro degli Esteri Edmondo Cirielli (1.7.23) al sempreverde mito degli “italiani brava gente”, che in Africa avrebbero svolto una «missione civilizzatrice» ispirata dall’attitudine rispettosa del prossimo e mai predatoria, propria del popolo italiano. Possibile che un membro del governo, oltretutto uno dei protagonisti delle relazioni internazionali del nostro paese anche con l’Africa, ignori che la pagina colonialista della nostra storia è una delle più oscure e cruente? Possibile che non sappia che l’impero tornato sui colli fatali di Roma, tanto per usare l’alata immagine della propaganda fascista, fu un’impresa sanguinaria – si calcola un mezzo milione di vittime almenov- fuori tempo massimo, rispetto al pur cruento imperialismo francese e inglese? Solo per citarne qualche segmento: la spietata campagna di conquista e repressione svolta da Pietro Badoglio e poi Rodolfo Graziani tra il 1929 e il 1931 in Libia e in Cirenaica, con la deportazione di civili in campi di concentramento e di punizione; lo sfruttamento schiavistico della Somalia, specie sotto Cesare de Vecchi; i crimini di guerra compiuti dall’Italia tra il ’35 e il ‘36 con la guerra d’aggressione in Etiopia. Fu una guerra coloniale asimmetrica per la sproporzione di forze e armamenti tra l’aggressore e l’aggredito, vi si usarono modalità illegali, come i gas tossici, messi al bando da una convenzione internazionale di cui l’Italia era firmataria. A guerra finita vi si introdusse un regime razzista di rigoroso apartheid ante litteram, stroncando nel sangue ogni protesta. Basti ricordare la repressione scatenata ad Addis Abeba nel febbraio 1937 dopo il fallito attentato contro Graziani, governatore dell’Etiopia, e il massacro di religiosi e pellegrini perpetrato nel maggio dello stesso anno a Debra Libanos, un monastero cristiano copto. Qui non si tratta di interpretazioni ma di corpose realtà fattuali.

Se, come un tempo si lamentava, l’analfabetismo storico potesse imputarsi a una storiografia italiana ripiegata su se stessa, boriosamente accademica, si potrebbe capire il fenomeno, ma da decenni il lavoro degli storici contemporaneisti è oggetto di buona e diffusa divulgazione, basti pensare al canale dedicato del servizio pubblico, Raistoria, frutto della collaborazione di efficaci comunicatori, di studiosi di riconosciuto valore scientifico e di esperti documentaristi . Del resto non mancano collane editoriali che fanno ottima divulgazione storica e iniziative di public history mirate a frequentare temi, linguaggi, fonti e strategie comunicative nuove per diffondere la conoscenza storica senza rinunciare alla sua problematicità e complessità.

Ma il problema è un altro. Come in tempo di pandemia si screditava il sapere medico scientifico in favore di teorie immaginose, coltivate in clusters autoreferenziali, così da tempo il lavoro degli storici è delegittimato in favore di una storia fai-da-te, che ciascuno può produrre in proprio e condividere in un concorde ambiente di politici di professione.

Da ultimo un episodio di ieri: durante la sua visita negli Stati Uniti la presidente del Consiglio è rimasta in imbarazzo di fronte a una domanda sul significato del tricolore. Può capitare di non avere la risposta pronta. Ma colpisce che non l’abbia chi del tricolore ha fatto un vero e proprio monopolio simbolico per il suo partito. Come non ricordare che durante la campagna elettorale del 2018 Giorgia Meloni apparve panneggiandosi addosso il tricolore con uno sconcertante slogan: «Oggi come ieri, un impegno, una sfida: non passa lo straniero». Le sue parole concludevano un video che rievocava il sacrificio degli italiani nella prima guerra mondiale, con in sottofondo la canzone del Piave e l’apostrofe «Indietro va, o straniero». Per essere degni dei nostri antenati che avevano respinto allora lo straniero, Meloni invitava anche noi a respingere l’invasione straniera in atto, quella dei migranti, beninteso, e nobilitava l’appello con la patriottica esibizione del tricolore. Peccato che il paragone fosse sballato: da un lato, suonava paradossale paragonare i flussi dei migranti, in fuga da fame, guerre e persecuzioni al dilagare dell’esercito austro-tedesco ben armato e meglio diretto, dopo lo sfondamento del fronte italiano a Caporetto nell’ottobre del 1917, e dall’altro , va rammentato che l’Italia non era stata invasa e aggredita, poiché era stata l’Italia a dichiarare guerra prima all’impero asburgico, poi al prussiano e l’invasione si era avuta solo con la rotta di Caporetto, una brillante operazione nemica resa possibile dagli errori del nostro Comando supremo, capeggiato da Cadorna. Insomma, qualche vistoso problema con la storia c’è, ora come c’era prima dell’avvento al governo.

 

Dal video https://www.youtube.com/watch?v=Fo-XjYxmyxo

Per concludere, si dà il nome di mitridizzazione a quella strategia medica che, sull’esempio del re del Ponto, Mitridate, consiste nell’ingerire sistematicamente dosi crescenti di veleno per divenirne immuni. Se ne è parlato a proposito dell’antisemitismo fascista, che fu inoculato a dosi crescenti nella vita pubblica italiana ottenendo una progressiva acquiescenza dell’opinione pubblica fino all’entrata in vigore delle leggi razziali. Forse anche ai nostri giorni questo stillicidio di manipolazioni storiche produrrà una stanca acquiescenza a una storia ad usum delphini costruita dall’alto, ma gli antidoti ci sono, a portata di mano, in libreria, in biblioteca, nei media, nel rigore scientifico della conoscenza storica.


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