Non banalizziamo i rigurgiti fascisti

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Quando si perde la memoria storica, e negli ultimi vent’anni abbiamo fatto di tutto, anche a sinistra, affinché ciò accadesse, le conseguenze sono quelle che abbiamo visto a Verona. Le descrizioni sono agghiaccianti: persone, per lo più straniere e ai margini della comunità, fermate e costrette a pulire con il corpo e gli abiti la propria urina, botte a volontà, un povero cristo obbligato a farsi la pipì addosso, spray urticante utilizzato come se non ci fosse un domani e altre barbarie su cui la giustizia sarà chiamata a fare il suo corso, con l’auspicio che sia più rapida ed equa possibile. A voler essere sinceri, ci interessano poco le sorti di questi soggetti che hanno disonorato la divisa che indossano e gettato discredito sull’intero corpo di Polizia. Così come ci interessano poco le scuse e le indagini interne: vanno benissimo, diremmo anzi che sono doverose, ma non è questo il punto. Il punto è comprendere la matrice di un simile abisso. E la matrice, come ha spiegato proprio sul sito di Articolo 21 il portavoce di Amnesty Italia, Riccardo Noury, si chiama caserma di Bolzaneto. Spiace doverlo dire, specie ai compagni, ma tutto ciò che stiamo vedendo oggi viene da allora, e le responsabilità della sinistra non sono poi tanto inferiori a quelle della destra. Non aver preteso la commissione d’inchiesta sui fatti del G8, non averla istituita e portata a termine neanche quando si è tornati al governo, pur avendola inserita all’interno del programma elettorale dell’Unione, non aver manifestato solidarietà né mostrato empatia nei confronti delle parti offese, salvo rare eccezioni, e non aver mai supportato il lavoro dei PM che eroicamente hanno combattuto in difesa dei diritti e della dignità delle persone coinvolte in quella mattanza, tutto questo ha contribuito, implicitamente, a creare il clima sociale che ci ha condotto a Verona e prim’ancora a Santa Maria Capua Vetere o ai casi Aldrovandi, Cucchi, Uva e via elencando. Non di reati penali, dunque, si tratta ma di errori e di precise scelte politiche per le quali quasi nessuno ha ancora fatto ammenda.
Le descrizioni che abbiamo letto in questi giorni mi hanno riportato alla mente l’esperienza più intensa e tragica della mia vita. Mi verrebbe da dire, pasolinianamente, “io so”. Io so di cosa stiamo parlando perché le ho viste davanti a me le lacrime di una ragazza che venne costretta a urinarsi addosso dopo aver chiesto disperatamente per ore di essere portata in bagno. Io so perché ho parlato con chi ha ricevuto addosso lo spray urticante spruzzato all’interno delle celle e subito gli insulti, le offese gratuite e le percosse o con chi è stato schiaffeggiato e obbligato ad ascoltare per un’intera, interminabile notte canzoni fasciste. Io so cosa significhi essere costretti a pulire il proprio vomito o essere messi con il viso a contatto con la turca, perché quelle storie le ho raccolte e quelle donne sono oggi amiche carissime e punti di riferimento della mia vita.
Io so cosa voglia dire infrangere lo spirito di corpo e denunciare perché ho parlato con due infermieri che hanno compiuto questa scelta, uno dei quali, Marco Poggi, ancora adesso si indigna e quasi urla quando rievoca quell’abisso. E so anche cosa significhi indossare con disciplina e onore la divisa, perché nel corso di quell’inchiesta ho voluto a ogni costo che fossero presenti pure alcuni agenti di Polizia che si sono battuti strenuamente contro ogni forma di violenza, che hanno fatto del rispetto per l’altro la propria cifra esistenziale, che hanno parlato espressamente di orrore e che hanno seguito i processi e porto delle scuse autentiche alle parti offese, pur non essendosi macchiati di alcun crimine. Lo hanno fatto per dignità, per restituire credibilità al proprio lavoro, per far percepire una diversità che esiste e merita di essere raccontata. Perché ci sono i picchiatori e le persone perbene, gli abusi e gli atti di umanità, le varie forme di complicità e le denunce che consentono alla comunità nel suo insieme di compiere un passo avanti. Esistono coloro che ci hanno fatto tornare indietro di oltre mezzo secolo e coloro che nell’81, dopo aver rischiato per anni la propria stessa carriera, ottennero una legge per avere una Polizia veramente al servizio della cittadinanza. Anche a Genova c’era chi sparava dei gas lacrimogeni vietati persino in un contesto di guerra e chi disse fin da subito che gli autori di quei gesti avevano leso il proprio stesso corpo, poiché quelle sostanze tossiche e cancerogene le avevano respirate anche gli agenti e, più che mai, coloro che in via Tolemaide avrebbero solo voluto garantire l’ordine pubblico.

Lo stesso discorso merita di essere compiuto a proposito dei magistrati. A Genova come altrove, c’è stato infatti chi ha chiesto condanne esemplari all’indirizzo dei manifestanti, chi ha assolto in Primo grado alcuni dei responsabili dello scempio della Diaz, poi condannati in Appello e in Cassazione, e chi ha anteposto la forza del diritto al diritto della forza, ben sapendo quale fosse il prezzo da pagare. Parliamo di eroi civili che non hanno fatto carriera, ci hanno rinunciato scientemente, ma se oggi possiamo ancora pronunciare il nome di Cesare Beccaria e stigmatizzare determinati comportamenti, lo dobbiamo unicamente a loro. E dobbiamo a loro anche un’altra meritoria battaglia su cui la politica, e la sinistra in particolare, ha marcato visita: quella per l’introduzione del reato di tortura. Duole doverlo ammettere, ma il governo italiano, rappresentato all’epoca da Gentiloni, e il Parlamento al seguito non l’hanno introdotto per scelta ma perché sostanzialmente obbligati dalla sentenza Cestaro contro Italia, e non solo, che rendeva impossibile non adeguarsi alle norme internazionali. Ed evitiamo di non cantar vittoria perche la formulazione presente nel nostro Paese è comunque assai blanda e oggi, su esplicita proposta di alcuni esponenti di Fratelli d’Italia, si vorrebbe tornare indietro anche su questo, smantellando un presidio minimo di civiltà per cui è servita la testimonianza straziante di un vecchietto che venne letteralmente fatto a pezzi, all’età di sessantadue anni, nella notte buia della Diaz. A tal proposito, è bene chiarire un aspetto di cui si è parlato troppo poco in questi anni: la Diaz incarna la ferocia pura, un distillato di furia e disumanità senza precedenti, cui giustamente Vicari ha dedicato un film che resterà nella storia del cinema. Il vero inferno, tuttavia, fu Bolzaneto, perché è lì che ci siamo giocati il Paese, è lì che è stato, di fatto, istituito il concetto di zona franca, senza Stato né legge, ed è lì, in una città medaglia d’oro della Resistenza, nella quale si era votato per le Politiche appena due mesi prima, che è passata sostanzialmente l’idea secondo cui, se lo si ritiene necessario, si può derogare alle leggi e alle norme costituzionali e possono essere calpestati i più elementari diritti. Se abbiamo visto una ministra aggredita con epiteti sessisti che si commentano da soli, se abbiamo assistito a episodi come quello di Verona, se nella società si respira un clima da presa del potere e da assalto alle istituzioni e a tutto ciò che vi ruota intorno, se siamo ridotti così, dunque, è perché in quella caserma ci siamo giocati lo Stato di diritto, l’habeas corpus e quei valori imprescindibili che dovrebbero costituire il bagaglio culturale dell’Occidente ma purtroppo, da allora, non solo in Italia, sono venuti meno.
Vogliamo dire ancora che bisognerebbe smetterla con la banalizzazione del fascismo e dei suoi rigurgiti. A furia di descrivere il regime mussoliniano come un tempo in cui chiunque uscisse di casa veniva aggredito e costretto a bere l’olio di ricino, facendone una parodia che, oltre a essere controproducente, manca di rispetto alle sue vittime, non stiamo cogliendo i segnali di un fascismo strisciante, subdolo e per questo ancora più pericoloso che si è impadronito di noi da tempo. Lo spiega bene un film, che vede come protagonista Jennifer Ulrich, l’attrice che interpretò Alma Koch in “Diaz”. Ebbene, ne  “L’onda” di Denis Gansel, la Ulrich era Karo, la studentessa che si oppone a un esperimento in una scuola tedesca che nasce come un gioco e si trasforma presto in una setta dai contorni nazisti. In quel film si capisce alla perfezione che, a ogni latitudine e a prescindere dal governo in carica, non siamo per nulla al riparo da un eventuale ritorno del fascismo: non nelle forme originarie, ovviamente, ma secondo modalità contemporanee, venate di autoritarismo, violazione dei diritti, occupazione di tutti gli spazi, a cominciare da quelli informativi, e soprattutto da un senso di impunità e di onnipotenza per chiunque si muova sotto il cono di luce del potere, sia esso diretto o indiretto, fino a comporre un quadro di disuguaglianza in cui, parlando espressamente del caso italiano, viene in pratica abolito, o comunque depotenziato, l’articolo 3 della Costituzione. Genova, e la caserma di Bolzaneto in particolare, racchiude tutto questo: una follia che dura nel tempo, un’aberrazione senza fine, un incubo che ritorna ciclicamente, con storie e racconti che si somigliano drammaticamente gli uni con gli altri. Cambiano solo i protagonisti ma la natura delle singole vicende è identica. Anche per questo ci piace concludere questa riflessione rendendo omaggio a Patrizia Petruzziello, uno dei PM che seguì il processo di Bolzaneto, una partigiana del diritto e della Costituzione. Quella donna straordinaria non ha mai smesso di ripetere che i fatti di cui lei si è occupata in tribunale andrebbero studiati nelle scuole. Ha ragione e bisogna battersi affinché accada davvero. Chi non conosce la propria storia, difatti, è destinato a ripeterla.

(Nella foto il carcere di Santa Maria Capua Vetere)


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