I papiri di don Perosi

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Clamoroso fu il successo di Lorenzo Perosi che, a fine Ottocento, quando le scene italiane erano interamente occupate dall’Opera, cominciò a scrivere oratorî di fulmineo successo. Il fatto è che seppe combinare un genere sacro le cui radici affondavano nel melos gregoriano con un linguaggio melodrammatico di conio verista. Un’idea buona, che piacque, anche se non tutti videro in lui l’ineccepibile artista. Ne fu ad esempio fiero stroncatore Beniamino Dal Fabbro, convinto che la musica di Perosi non fosse teatrale e melodrammatica, come di norma si pensa, ma semplicemente chiesastica, non cioè religiosa o sacra, ma proprio «da chiesa, nel senso delle funzioni di Vespro, delle grandi Messe cantate domenicali, con la sdolcinatura melodica e l’eroismo liturgico dell’organo, col giubilo marciante dell’Ite, col tremito belante delle voci celesti in cui sta per inserirsi il cauto campanello dell’Elevazione, agitato da un peritoso chierichetto». La perosiana Passione di Cristo gli sembrava una compilazione pseudo-gregoriana pennellata di vernice biblico-orientale, poggiata su strutture scolastiche bachiane, sfogature melodiche mascagnane e un’innaffiata panica wagneriana: «Per questo la musica di Don Perosi piace soltanto ai preti e ai fedeli, frequentatori delle chiese; è la musica d’un prete italiano, che enfaticamente e caramellosamente imbalsama, della chiesa d’ogni giorno, il lezzo di vecchia cera e di raggelato incenso». Questo Dal Fabbro annota nel suo scoppiettante diario pubblicato col titolo Musica e verità.

Inaugurazione del Salone Perosi

Eppure, il successo degli oratorî – Il Natale del RedentoreLa passione di CristoMosèLa trasfigurazione di Cristo – fu grande, tale per cui la città di Milano, e ancorché per il breve tratto di pochi anni, ebbe un luogo totalmente adibito all’esecuzione delle composizioni del sacerdote. Accadde nel 1900, quando i nobili Bagatti Valsecchi acquistarono, in quanto caduta in disuso, la chiesa di Santa Maria della Pace di via San Barnaba; la restaurarono e vi fondarono un auditorium che vollero chiamare Salone Perosi. Vicenda breve: problemi amministrativi portarono alla chiusura del Salone già nel 1906; la chiesa fu riconsacrata e oggi è tornata al ruolo del culto. Anche a Roma, negli anni Venti del Novecento, il direttore Bernardino Molinari portava ogni anno un oratorio di Perosi all’Augusteo. Poi, velocemente, il silenzio si distese su quelle opere e l’inconsapevolezza su tutto il resto, ad esempio sulla notevole produzione perosiana di diciotto quartetti, praticamente ignoti eppure in numero maggiore dei quattrodici di Dvorák o dei quindici di Sostakovic.

Negli ultimi tempi di attività alla Cappella Sistina come Maestro di musica, Perosi entrò in una grave crisi spirituale che suscitò negli ambienti una certa sorpresa mista a disagio. Fu Pio XI – al secolo papa Ratti – a far scivolare la cosa sottotraccia, agendo con massima prudenza. Pian piano Perosi tornò nei ranghi della Chiesa Apostolica, ma non era più lui: passava le ore come fosse assorto in un estraneo mondo. Qualcuno, in Vaticano, si accorse che continuava a comporre e riempiva parecchi fogli di musica. Però li incollava l’un l’altro al bordo inferiore e ne otteneva colonne musicali che, arrotolate, diventavano come dei papiri. Vi tracciava ancora le gentili armonie della propria spiritualità, quelle che per Dal Fabbro sapevano di vecchia cera.

I papiri di don Perosi


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