Cosa ha detto davvero il papa in Ungheria

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Ho letto da molte parti che papa Francesco in Ungheria avrebbe “benedetto” il modello orbaniano. Interessante, davvero. Questo modello, come è noto, si basa su tre scelte: esisterebbe una democrazia cristiana illiberale, nazionalista, contraria al riconoscimento di ogni diritto degli omosessuali e ad ogni accoglienza di fugge lungo la rotta balcanica, con la sua cultura siriana, afghana, irachena, curda e molte altre. Trattamento diverso da quello riservato agli ucraini, che vengono da un Paese di cultura cristiana.

Davanti alle autorità ungheresi, nel suo primo discorso ungherese,  il papa ha  concluso il suo discorso  citando così il primo re ungherese: “ un Paese che ha una sola lingua e un solo costume è debole e cadente. Per questo ti raccomando di accogliere benevolmente i forestieri e di tenerli in onore, così che preferiscano stare piuttosto da te che non altrove”. La diplomazia della misericordia non considera nessuno pregiudizialmente perduto, anela alla pace, ma non rinuncia ai valori che ne fondano la visione del mondo. E se si considera che Orbàn aveva detto che era suo impegno tenere l’Ungheria sulla via del cristianesimo, non può non colpire che il papa abbia affermato che quelle appena citate sono parole che indicano l’atteggiamento di fondo del credente in Gesù, che, ha detto testualmente, “ si è identificato nello straniero da accogliere”.

Il tema migranti, che vede l’Ungheria accogliere gli ucraini ma non quelli che percorrono, fuggendo, la rotta balcanica, ha indotto Bergoglio a chiedere senza esitazioni né mezzi termini, “ vie sicure e legali” e “meccanismi condivisi di fronte a una sfida epocale che non si potrà arginare respingendo, ma va accolta per preparare un futuro che, se non sarà insieme, non sarà”. Basta questo per capire che Francesco, visibilmente stanco, si è però presentato a Budapest determinato a parlare con forza e chiarezza. Di migranti, ma anche di guerra e quindi di Ucraina e di Europa. All’Europa il papa ha chiesto di scegliere una sana laicità, che non scada nel laicismo, sempre capace di essere “ allergico ad ogni aspetto sacro per poi immolarsi sugli altari del profitto”. Non poteva qui non seguire la sua costante critica all’ideologia gender e all’aborto inteso come un diritto, mentre lui lo ha definito sempre “una sconfitta” ( sconfitta è stata la parola prescelta, a mio avviso con cura , e su questo molto si dovrebbe riflettere).

Poi ha parlato della guerra in Ucraina, dicendo cose importanti e da molti riprese. Ma sui temi dell’apertura e del rapporto con lo straniero è tornato nell’omelia della grande messa conclusiva, dedicata quasi completamente a questo tema. E che cosa ha detto? Ha detto che la porta di Cristo non viene mai sbattuta in faccia a nessuno. E’ una scelta chiara quella compiuta dal papa, felice che in piazza con i cattolici ci siano delegazioni delle altre Chiese, rappresentanti del corpo diplomatico, della comunità ebraica. Un sottolineatura che il papa ha voluto fare subito, e visto che avrebbe presto parlato di Cristo come porta, attraversa la quale si entra nella sua parola e inevitabilmente subito dopo se ne esce per portarla e viverla nel mondo, non è stata certo irrilevante.

Cristo è una porta sempre aperta, attraverso la quale si entra e poi però si esce, quindi è una porta sempre aperta, ha detto il papa.  “”E’ triste e fa male vedere porte chiuse: le porte chiuse del nostro egoismo verso chi ci cammina accanto ogni giorno; le porte chiuse del nostro individualismo in una società che rischia di atrofizzarsi nella solitudine; le porte chiuse della nostra indifferenza nei confronti di chi è nella sofferenza e nella povertà; le porte chiuse verso chi è straniero, diverso, migrante, povero. E perfino le porte chiuse delle nostre comunità ecclesiali: chiuse tra di noi, chiuse verso il mondo, chiuse verso chi ‘non è in regola’, chiuse verso chi anela al perdono di Dio. Per favore: apriamo le porte!”.

E’ la Chiesa in uscita di Francesco, Chiesa missionaria verso il mondo e i suoi uomini e donne di oggi, i suoi problemi, le sue sofferenze. Ecco cosa significa essere Chiesa in uscita: ” significa per ciascuno di noi diventare, come Gesù, una porta aperta. È triste e fa male vedere porte chiuse: le porte chiuse del nostro egoismo verso chi ci cammina accanto ogni giorno; le porte chiuse del nostro individualismo in una società che rischia di atrofizzarsi nella solitudine; le porte chiuse della nostra indifferenza nei confronti di chi è nella sofferenza e nella povertà; le porte chiuse verso chi è straniero, diverso, migrante, povero. E perfino le porte chiuse delle nostre comunità ecclesiali: chiuse tra di noi, chiuse verso il mondo, chiuse verso chi ‘non è in regola’, chiuse verso chi anela al perdono di Dio”. L’esclusione del diverso, l’esclusione del peccatore, l’esclusione chi non ha tutti i bollini in regola, non è proprio della Chiesa in uscita, perché Francesco ha ricordato spesso che i sacramenti sono balsamo per i peccatori, non un premio per i perfetti.

Proprio a Budapest, dove è stata teorizzata la “democrazia cristiana illiberale” Francesco ha scelto di andare fino in fondo su questo punto decisivo del suo pontificato: “Per favore, per favore: apriamo le porte! Cerchiamo di essere anche noi – con le parole, i gesti, le attività quotidiane – come Gesù: una porta aperta, una porta che non viene mai sbattuta in faccia a nessuno, una porta che permette a tutti di entrare a sperimentare la bellezza dell’amore e del perdono del Signore. Essere aperti e inclusivi gli uni verso gli altri, per aiutare l’Ungheria a crescere nella fraternità, via della pace. Incoraggiamoci ad essere porte sempre più aperte: ‘facilitatori’ della grazia di Dio, esperti di vicinanza, disposti a offrire la vita, così come Gesù Cristo, nostro Signore e nostro tutto, ci insegna a braccia aperte dalla cattedra della croce e ci mostra ogni volta sull’altare”.

Queste parole non mirano a fare dell’estremismo il modello di vita, ma a indicarne la valenza decisiva, culturale e religiosa.

“Lo dico anche ai fratelli e alle sorelle laici, ai catechisti, agli operatori pastorali, a chi ha responsabilità politiche e sociali, a coloro che semplicemente portano avanti la loro vita quotidiana, talvolta con fatica: siate porte aperte. Lasciamo entrare nel cuore il Signore della vita, la sua Parola che consola e guarisce, per poi uscire fuori ed essere noi stessi porte aperte nella societa”.

Difficile ritenere che la società che così nascerà avrà le porte chiuse all’altro, allo straniero, al non credente, o al diversamente credente. Molto difficile.

Il messaggio ovviamente vale per tutti, per l’Europa gassosa di una tecnostruttura lontana dai popoli, dalla realtà, ma anche per chi parla di un cristianesimo chiuso, identitario e nazionalista, illiberale. Ma vale soprattutto per la sua Chiesa, invitata a determinarsi a vivere la dimensione della missionarietà, imparando a leggere quelli che la Chiesa chiama i “segni di tempi”. E tra questi i luoghi delle migrazioni, il Mediterraneo come la rotta balcanica, appaiono autentici luoghi teologici.

O io non so in cosa consista il modello orbaniano  o il papa ha detto esattamente il contrario di quello che alcuni hanno preteso credi dire che abbia detto.


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