La precarietà che umilia il valore del lavoro

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La mattina di domenica 30 aprile sono entrato in un supermercato vicino a casa. Le nostre abitudini di consumo sono cambiate, viaggiando di conserva con i tanti mutamenti che attraversano il mondo. Così, poter entrare in un supermercato di domenica mattina è un fatto, ormai, scontato. Sul banco della panetteria era esposto un cartello: “si avvisa la gentile clientela che lunedì 1 maggio il supermercato rimarrà aperto, con orario continuato, dalle 8:00 alle 20:00”.

Non intendo fare un richiamo retorico al valore di quella combattiva quanto festosa astensione dal lavoro che ha caratterizzato il Primo Maggio per decenni della nostra storia. Voglio però ricordare cosa affermò Giuseppe Di Vittorio in un suo scritto per il Primo Maggio 1953: “il Primo Maggio[…] esalta la potenza del lavoro e le priorità e la nobiltà della sua funzione nella vita d’ogni società umana.”

Ciò che è necessario osservare è che il lavoro sembra aver perso quella potenza alla quale si riferiva Di Vittorio. Faccio parte di quella generazione che si è affacciata al mondo del lavoro al culmine di un’epoca di straordinario sviluppo, nella quale il lavoro ha conquistato quella centralità, quella dignità, quei diritti materiali e sociali individuati nella semplice formulazione del primo articolo della nostra Costituzione.

“I difetti economici più evidenti della società in cui viviamo sono l’incapacità di assicurare la piena occupazione e la sua arbitraria e iniqua distribuzione della ricchezza e dei redditi.” Così aveva scritto nel 1936 John Maynard Keynes nella sua Teoria generale. Il pensiero economico di Keynes caratterizzò il dopoguerra. La piena occupazione e la crescita del reddito da lavoro – con l’emancipazione sociale che comportava – furono i chiari obbiettivi dei decenni del dopoguerra e del boom economico.

Di conseguenza la mia generazione, i nati di quel dopoguerra, ha conosciuto un livello di prosperità del lavoro e di qualità del welfare che oggi, per contro, vediamo regredire con costanza. Quell’analisi di Keynes, vergata nel 1936, potrebbe essere stata scritta questa mattina.

Non c’è, perciò, un filo di retorica nelle parole dedicate dal presidente Mattarella a questo Primo Maggio del 2023. Ma un evidente richiamo alle radici politiche e sociali di una prosperità che implica la giustizia sociale per realizzarsi. “Il lavoro – ha messo in evidenza il presidente della Repubblica – è stato lo strumento che ha permesso e favorito la mobilità sociale… pertanto, la precarietà come sistema, stride con le finalità di crescita e di sviluppo”. Perciò “ampliare la base del lavoro, e la sua qualità, deve essere assillo costante a ogni livello, a partire dalle Istituzioni”.

È necessario ritrovare quei fondamentali che ci indica Mattarella, senza nostalgie ed evitando scorciatoie retoriche, per costruire uno sviluppo che è reale solo laddove coinvolge l’intera società, offrendo a ciascuno le necessarie opportunità.

Buon Primo Maggio.


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