“Il sol dell’avvenire”, di Nanni Moretti. Un film atteso, le speranze deluse, e una chance ancora

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Con Nanni Moretti, Silvio Orlando, Margherita Buy, Jerzy Stuhr, Mathieu Amalric

Spiace, lo scrivo davvero a malincuore, dire dell’ennesima delusione targata Nanni Moretti. Il titolo del film, l’aver ripreso in mano il suo antico “Io autobiografico” (qui il protagonista è Giovanni, un regista), il film nel film o meglio nei film, tutto lasciava sperare in qualcosa di buono, quanto meno di migliore rispetto a “Tre piani” e ai film precedenti post Michele Apicella, suo geniale ed indimenticabile alter ego di un tempo. Invece, proprio i motivi della speranza si sono ritorti contro l’autore romano. Il movente politico di fondo è scontato e incredibilmente ingiusto e liquidatorio di una esperienza politica, quella del Pci, che meritava ben altra analisi, anche per via di un certo Berlinguer, che Moretti, fra l’altro, ha ben conosciuto, facendosi, anzi, interprete raffinato e ironico del suo essere “uguale ma diverso” nelle sue migliori opere, vedi “Palombella rossa”, solo per citare il titolo più emblematico in tal senso. Il finale del “se” storico all’incontrario, sviluppato sul tema dell’invasione ungherese del 1956 ad opera dei sovietici, riconosciuta come un errore dai comunisti italiani nella fantasia del regista, con la sfilata dei protagonisti di tutti i suoi film precedenti, ma anche di persone a lui care, in una sorta di chiusura alla “Otto e mezzo”, è stucchevole e persino fine a se stesso. Ben lontano, peraltro, in forma e intensità, da quello del grande riminese. Ma non è solo il “lato politico” del film a deludere, magari! Purtroppo, la crisi matrimoniale del regista (la moglie Paola è una sempre più monocorde Margherita Buy), la storia d’amore della giovanissima figlia con l’anziano ambasciatore polacco (il kieslowskiano Jerzy Stuhr), come anche la vicenda del produttore arrestato durante le riprese (uno sprecato Mathieu Amalric) fanno sprofondare il film in un insieme di luoghi comuni, da cui lo stesso Moretti interprete esce malamente, talvolta dando l’idea di una certa incapacità persino a reggere la scena. La lunga sequenza che lo vede protagonista sul set di un giovane regista tarantiniano, sembra presa di peso da uno degli episodi di “Caro diario”, anno 1993 (lì sotto processo era il mitico, per alcuni, “Henry pioggia di sangue”), senza, però, arrivare a quella efficacia di allora (fatta salvo l’elogio che egli magistralmente compone del “Breve film sull’uccidere” di Kieslowski), al punto da dover ricorrere, addirittura, alle presenze-testimonianze, quanto mai inutili e talvolta imbarazzanti, di Renzo Piano, Corrado Augias e della fisica Chiara Valerio. Forse Moretti voleva riproporci lo stupore che ci regalò Allen con Marshall McLuhan presente come se stesso in una famosa sequenza di “Io e Annie”? Il paragone fatelo voi! Tutto sembra appiccicato lì a compensare un vuoto di fondo di idee, a questo punto penso proprio irreversibile. Il Moretti politico non è più il Michele Apicella dei suoi capolavori, e l’assenza di questo personaggio ha definitivamente trascinato il Moretti esistenziale nell’anonimato autoriale, privo ormai di una qualsiasi identità. Ho parlato nel titolo di una chance ancora in vita per l’arte di Moretti. E’ il musical. Le uniche cose riuscite del film sono, appunto, il suo immaginare, ennesimo film nel film, la realizzazione di un’opera in cui i due protagonisti vivono una lunga vita insieme, con il tempo scandito da canzoni famose di ogni epoca attraversata. Ed allora eccole, all’improvviso, le fiammate che arrivano da “Lola”, il mitico film di Jacques Demy, antico amore di Moretti, da “Lontano, lontano” di Luigi Tenco sul finale de “La dolce vita”, appena visto dai due giovani protagonisti del suo immaginato film, o le scene che si muovono su “La canzone dell’amore perduto” di Fabrizio De Andrè e “Voglio vederti danzare” di Franco Battiato. Quest’ultima accompagna e “crea” la sequenza più esaltante, quando la canzone del grande cantautore catanese irrompe, al momento giusto, su un film arrivato al capolinea di ogni ispirazione, coinvolgendo protagonisti e spettatori in un ballo stavolta davvero liberatorio. Ed è talmente ispirato Moretti da questo altro film nel film da regalarci un dialogo tra i due giovani protagonisti che stanno per lasciarsi, da lui stesso genialmente suggerito fuoricampo, così intenso da rimanere nella memoria delle poche cose belle viste in quest’opera. Non basta dire che non si tratta di un film politico ma di un film d’amore che parla di politica, bisogna anche saperlo raccontare. E le uniche volte che Moretti-Giovanni ci riesce è proprio attraverso questo connubio canzone-immagine da egli stesso tanto anelato, forse inconsciamente consapevole della insufficienza di tutto il resto.


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