Migranti: sopravvivere al dolore di una guerra silenziosa

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“Quello che voglio  adesso è acqua da bere, un posto caldo e un luogo sicuro dove non sento più quelle urla di disperazione e di agonia” .

É il primo desiderio espresso da alcuni migranti sopravvissuti all’ultima tragedia nel Mediterraneo centrale . La hanno raccontato agli psicologi di Medici senza Frontiere rientrati da Lampedusa dove hanno operato per quattro giorni il primo intervento di supporto psicologico  dopo lo sbarco e il trasferimento dei migranti nell’hotspot di Lampedusa. Storie che non possono lasciare indifferenti soprattutto se si ascoltano direttamente da chi le ha vissute.

Su quella barca lasciata alla deriva al largo delle coste tunisine in 42 sono rimasti per giorni senza cibo, senza acqua e con il freddo che nei mesi invernali di notte diventa insopportabile. Quando sono approdati finalmente a Lampedusa il 3 febbraio, alcuni non riuscivano neanche a camminare tanto era il dolore alle gambe e allo stomaco per aver bevuto acqua di mare. Molti  deliravano e avevano allucinazioni.

Quelli più lucidi hanno raccontato di essersi persi poco dopo essere partiti da Sfax. Ignorati da tre pescherecci incontrati in quei giorni, nonostante le disperate richieste di aiuto.  Intanto otto tra i più fragili morivano davanti ai loro occhi. Solo la pietà dei pescatori su un quarto peschereccio incontrati al decimo giorni di viaggio , ha salvato gli altri da morte certa. Vedendoli in quelle condizioni con i cadaveri a bordo, li hanno rifocillati e trainati in un punto in cui era certo l’intervento della nostra guardia costiera che il 3 febbraio ha finalmente posto fine alle loro sofferenze portandoli a Lampedusa.: i morti e i vivi che hanno descritto i loro soccorritori come “angeli venuti dal mare”.

Per chi è riuscito a sopravvivere non sarà però facile superare il trauma. Un ragazzo che aveva tenuto tra le braccia l’amico con il quale viaggiava da settimane. Convinto che fosse ancora vivo, solo dopo sbarcato ha capito ed è rimasto a lungo disorientato e dissociato dalla realtà che lo circondava. Non vedeva le persone che aveva davanti ma sembrava fosse rimasto su quella barca. Vedeva solo il mare, il carburante che si mescolava con l’acqua salata e  i corpi senza vita in mezzo ai vivi che urlavano e si lamentavano per la fame e i dolori.

Nei quattro giorni in cui gli operatori di MsF sono rimasti con i sopravvissuti, il giovane si è piano piano ripreso. Al contrario di un altro uomo che aveva perso la moglie, il figlio e il fratello. La donna era rimasta con il bimbo in braccio finché, senza più forze, si era accasciata lasciando scivolare il piccolo in mare. Nel vano tentativo di recuperare il bambino, lo zio si è lanciato in acqua ma entrambi sono spariti tra i flutti. Unico sopravvissuto del nucleo familiare, il papà è rimasto in uno stato psicologico devastato. Disperata anche la giovane donna incinta di tre mesi che ha perso il suo bambino. A riportare un po’ di luce il miracolo della neonata sopravvissuta attaccata al seno di una mamma che intanto aveva esaurito il suo latte.

La barca sulla quale viaggiavano i 42, tutti subsahariani era una di quelle nuove imbarcazioni in ferro. Più instabili e pericolose di quelle usate negli anni passati e che somigliano più a vasche da bagno. I trafficanti le usano per mettere in mare gli africani neri.  Anche se partono dalla Vicina Tunisia, l’instabilità dell’imbarcazione rende il viaggio pericoloso quanto quello sui gommoni che partono dalla Libia. Il peso dato dal numero eccessivo di persone caricate a bordo fa abbassare la barca fino a far entrare l’acqua dentro: i passeggeri viaggiano immersi in questo liquido ustionante fatto di acqua di mare e carburante. Resistere a lungo cosi è impossibile. Per chi riesce a sopravvivere a questa guerra, la vita è un tormento. Per questo per ogni superstite i medici di MsF scrivono un certificato di vulnerabilità in cui si raccomanda al centro che accoglierà queste persone di attivare un percorso psicosociale.

“Sappiamo che il dolore è lo stesso per tutti ma tante volte ci dimentichiamo che il dolore che provano gli altri è uguale al nostro” concludono le psicologhe di MsF rientrate dall’isola che continua ad accogliere i vivi e i morti. Succede purtroppo mondo che sempre più spesso rifugge il dolore  degli altri.


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