Mondiali Qatar. Il calcio è ancora uno sport? E’ puro intrattenimento? Che fare?

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Tanti, troppi, i racconti che si sono susseguiti in queste ultime settimane: rivelazioni sconcertanti che hanno scoperchiato il vaso di Pandora. Eppure erano 12 anni che si sapeva che i Mondiali di calcio 2022 sarebbero finiti in Qatar, la petromonarchia araba senza storia calcistica, senza diritti, senza condizioni climatiche e sociali accettabili.
Contro il volere della commissione di esperti Fifa che nel dicembre 2010 l’avevano retrocessa all’ultimo posto tra sedi possibili, la Fifa di Sepp Blatter e Michel Platini, decise così. Lo stato-portaerei nel Golfo Persico vinse su altre sedi concorrenti: Stati Uniti, Australia, Giappone, Corea del Sud.

In questa dozzina di anni la geografia del calcio è cambiata, dopo l’assegnazione del Mondiale, nell’estate 2011,  la Qatar Investment Authority ha acquisato il Paris Saint Germain, facendone il club più potente del mondo. Poi sono arrivati altri petrodollari per l’acquisto del Manchester United da parte di Abu Dhabi, il Newcastle saudita di Bin Salman. Non solo calcio: i Paesi arabi si sono tuffati nell’intrattenimento con investimenti importanti nella Disney e nella promozione di concerti internazionali.
Amnesty International si è mossa da tempo per chiedere che il rispetto dei diritti umani sia incluso nelle clausole d’acquisto dei club calcistici. Attualmente si contano 14 club tra i più forti in Europa e nel mondo che sono di proprietà di Emirati arabi.
Il petrolio arabo non ha ancora fatto affari con le squadre di serie A perché considera il calcio italiano instabile e caotico. Però l’Arabia Saudita avrebbe offerto due mesi fa, 138 milioni per ospitare per i prossimi otto anni, la Supercoppa italiana e un minitorneo. Intanto Emirates, l’ottava compagnia aerea del mondo, ha iniziato la sua scalata in Italia come sponsor del Milan, vicina al rinnovo fino al 2027 per 30 milioni di euro a stagione. Emirates sponsorizza vari club europei, tra cui Real Madrid, Arsenal, Benfica.

Il calcio è ancora uno sport? E’ puro intrattenimento? Che fare?
Innanzitutto diventare consapevoli del problema, non abbassare lo sguardo, come invita a fare Infantino, il massimo dirigente mondiale del calcio, ma alzarlo. Se provi ad alzare lo sguardo qualche “idea” ti viene di sicuro. Anche perchè a Doha, in quello stesso Paese, nel 2030 si terranno i Giochi asiatici e nel frattempo sono previsti una serie di eventi-vetrina internazionali, non solo sportivi. La combinazione tra calcio e petrolio ci spinge a non abbassare la guardia, a mettere insieme tutti i frammenti e a scegliere alcune idee guida per provare a leggere questa realtà complessa..
Siamo sulla soglia di un fenomeno magico corroso dall’abisso che non lo ha perso mai d’occhio. Che nel corso degli anni ha cambiato più volte nome: calcio scommesse, doping, violenza, partite truccate, Sla, plusvalenze, diritti tv, bilanci gonfiati, Superlega e così via. Il sogno popolare è cresciuto perché alla base c’è l’intrattenimento e l’emozione. Poesia e vertigine hanno contribuito ad una sorta di immunità permanente attraverso la quale il calcio stellare (mica quello di periferia) è diventato praticamente intoccabile, uno spettacolo sempre più costoso che non si può fermare, nè frenare.

E allora che fare? Prendere atto e contestualizzare lo sportwashing, che riguarda tutti quei Paesi che cercano di rifarsi un look di rispettabilità utilizzando il principe degli intrattenitori, il calcio. E inquadrare il fenomeno Mondiale in Qatar per ció che è, un caso esemplare del ruolo del calcio come strumento di soft power e delle competizioni sportive globali come strumento di visibilità.

Un buon modo per vivere il Mondiale, e raccontarlo, potrebbe essere quello di rammentare sempre che la rispettabilità internazionale ha coordinate precise: diritti umani, giustizia sociale, equità economica, democrazia, sostenibilità ambientale. E non si può comprare. Quando le grandi Federazioni sportive internazionali e il Cio si apriranno seriamente alla questione dei diritti umani e alla sostenibilità ambientale e sociale dello sport?
Andare in Qatar e realizzare un serio “bilancio sociale” di questi Mondiali, altro che. Dodicimilacinquecento giornalisti raggiungeranno Doha da ogni parte del mondo, consapevoli che andranno a lavorare per quindici giorni “in” una  petromonarchia, non “per” una petromonarchia.
E’ la prima volta che si gioca un Mondiale in un paese musulmano e gli haram sono scritti su ogni parete: è proibito filmare in luoghi pubblici ed è vietato mostrare atteggiamenti LGBTQIA+. Pare che sia proibito, da oggi, anche bere birra…con buona pace della Budweiser. Gli avvertimenti delle autorità sono stati chiari sin dal primo momento, le regole sono regole, ma i giornalisti, si sa, sono irregolari per natura, se no farebbero altri mestieri. Per commentare le 64 partite in programma, limitandosi ad osservare quello che succede nel rettangolo verde, era più comodo rimanere ognuno a casa sua.

Ai giornalisti è affidato il compito di raccontare il campo e il fuori campo, di accendere i riflettori su uno spicchio di mondo che sfreccia verso il futuro conservando il Medioevo che fa comodo a chi lo comanda e ai suoi alleati. Per raccontare che i diritti sono diritti sempre e ovunque. In una nota inchiesta del Guardian si parla di 6.500 lavoratori morti dal 2010 in Qatar, anno di assegnazione dei Mondiali: decessi da collegare alla costruzione delle infrastrutture e degli impianti sportivi, una strage. Varie organizzazioni umanitarie, come Amnesty international e Human rights watch, hanno denunciato negli anni le precarie condizioni di sicurezza e di salute in cui si sono trovati a lavorare gli operai in Qatar.Ci sono poi le inchieste giornalistiche che accusano gli organizzatori di aver comprato migliaia di tifosi con biglietti e soggiorni gratuiti a patto che cantino, applaudano e sventolino le loro bandiere.

Alcuni accorgimenti permetteranno alla Fifa di dire che c’è stato un forte impegno in tema di pianeta e sostenibilità, perché, ad esempio, i fan village e due stadi su otto verranno smantellati e riciclati al termine della manifestazione. Peccato che l’organizzazione non governativa Carbon Market Watch ha calcolato che nel mese di novembre 2022 le emissioni in Qatar saranno otto volte superiori a quelle di un anno in Islanda.
E allora, che fare? Appellarsi al protagonismo di chi scenderà in campo: le fasce arcobaleno che indosseranno il capitano dell’Inghilterra, Harry Kane, e una decina di altri colleghi di altre nazionali per i diritti delle persone LGBTQIA+. Anche i calciatori di tutto il mondo avranno la possibilità di fare qualcosa per i diritti umani, per rompere l’accerchiamento e lanciare un messaggio importante di libertà e diritti.
E non smettere di tenere alta l’attenzione da parte delle organizzazioni della società civile, che in questi giorni hanno moltiplicato gli appelli per i diritti umani in Qatar. Uisp e Arci hanno diffuso un comunicato congiunto, un’analisi sintetica del Mondiale in Qatar e delle sfide aperte, anche e soprattutto guardando al dopo: Senza diritti non chiamatelo Gioco. E neppure sport – titolano le Uisp e Arci, e scrivono: “Facciamo appello alla Fifa e al Cio affinchè si aprano davvero ai diritti umani, alla sostenibilità ambientale, alle libertà democratica. Facciamo appello ai governi e alle istituzioni sovranazionali affinchè sia alta l’attenzione ad evitare l’uso strumentale dei grandi eventi sportivi. Siamo certi che il mondo dell’informazione e i giornalisti di tutto il mondo sapranno raccontare ciò che avviene anche al di fuori dei rettangoli di gioco: non c’è civiltà senza diritti. Così come i protagonisti in campo sapranno esprimere valori di rispetto e di libertà per i diritti e la parità di genere: il calcio fa parte della vita, non è separato da essa”.

Se oggi Pier Paolo Pasolini decidesse di cercare i fili della macchinazione, forse sceglierebbe proprio il calcio, che conosceva ed amava. A suo tempo, per il suo ultimo romanzo-saggio, scelse il magma della finanza e dell’oro nero. Perché scelse i suoi oscuri e misteriosi burattinai? “Perché conoscono la grandezza sia dell’integrazione che del delitto, proprio come gli eroi di Balzac e di Dostoevskij”. Era “Petrolio”, rimasto incompiuto, un affresco di frammenti sul potere col quale, forse, firmò la sua condanna.


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