“Mai più sole contro la violenza sessuale”: un libro, un incontro, un impegno. Con l’autrice Nadia Maria Filippini a Venezia, a cinque anni dal Manifesto

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Una vicenda rimossa dalla memoria collettiva e che ha segnato una tappa fondamentale del movimento femminista e della presa di coscienza pubblica sulla violenza di genere intesa come fenomeno di massa con radici in un modello culturale e sociale espressione del potere maschile.  Si tratta del processo per stupro di una minorenne, diventato grazie alla decisione della vittima, un processo a tutte le donne violentate, una lotta politica supportata dal movimento femminista.

Il primo processo per stupro a porte aperte, il primo in cui si denuncia la non neutralità dei giudici compreso il pm smascherando la cultura solidale con lo stupro, il primo in cui il collegio giudicante viene ricusato per maschilismo e “concordanza oggettiva dei contenuti culturali tra giudici e imputati”, il primo che viene accompagnato da una manifestazione nazionale di piazza contro la violenza di genere nei tribunali.

Succede nel 1976 a Verona. A riconsegnare e affidare alla memoria collettiva questo episodio è il bel libro di Nadia Maria Filippini dal titolo “Mai più sole contro la violenza sessuale, Una pagina storica del femminismo degli anni Settanta” (Edizioni Viella), al centro dell’incontro pubblico in programma nella sede dell’Ateneo Veneto a Venezia a partire dalle 17, venerdì 25 novembre, giornata internazionale della lotta contro la violenza sulle donne. Una data scelta non a caso e che celebra anche i 5 anni dal varo del Manifesto di Venezia, che impegna le giornaliste e i giornalisti che lo sottoscrivono a una informazione attenta, corretta e consapevole del fenomeno della violenza di genere e delle sue implicazioni culturali, sociali e giuridiche. Sarà Antonella Magaraggia, presidente Ateneo Veneto, a coordinare gli interventi di Monica Andolfatto, Chiara Santi e Laura Schettini che dialogheranno con l’autrice.

La colpevolizzazione della vittima, il maschilismo che affiora nelle istituzioni giudiziarie e nelle forze dell’ordine, la narrazione secondo stereotipi e discriminazioni, i tentativi di bavaglio alla stampa. Per certi versi, troppi, sembra cronaca di oggi quella descritta in tutta la sua complessità da Filippini, già docente di Storia delle donne a Ca’ Foscari e fra le fondatrici della Società italiana delle storiche.

Il libro è anche un tributo a una ragazzina della provincia veronese di appena 16 anni che ebbe il coraggio di denunciare i suoi due violentatori. Era una sera di giugno. Con il suo ragazzo stava rientrando dalla palestra: furono sorpresi lungo la strada, lui sprangato in testa, lei sequestrata, portata in auto a qualche chilometro di distanza, stuprata e abbandonata.

Alma, questo il nome scelto da Filippini nel testo per garantirne privacy e diritto all’oblio, si ribella ai modelli e ai comportamenti femminili tradizionali che imponevano il silenzio della vergogna e l’emarginazione sociale. Al suo fianco i gruppi femministi e anche il padre e il fidanzato che si costituiscono parti civili a sottolineare che condividono pienamente la decisione di trasformare un fatto che si voleva privato, in azione pubblica e quindi politica.

In tale scenario il ruolo dei media, locali, nazionali e internazionali è decisivo. Giornali, radio tv, con una precisa strategia comunicativa vengono coinvolti dal movimento per dare voce ad Alma che in una delle tante interviste rilasciate dichiarerà: «Io voglio che tutti sappiano cosa vuol dire essere violentata» per non fare sentire mai più  nessuna donna sola.

Ed è la prova volta che la tv di Stato, su Rai 1in prima serata il 26 ottobre 1976 trasmette un lungo documentario sul dibattimento in corso, strappando quindi il primato attribuito erroneamente al “Processo per stupro” di Latina andato in onda su Rai2 del 26 aprile 1979.

E anche la sentenza, del tutto inedita, segna un primato perché riconosce il movimento femminista come soggetto collettivo accogliendo la richiesta delle avvocate di parte civile (Tina Lagostena Basso e Maria Magnani Noya) di un risarcimento da destinare al sostegno di iniziative di contrasto alla violenza sessuale. Non era mai successo in Italia.

Il coordinamento dei gruppi femministi chiede alla Corte di essere presente al processo non solo per solidarietà ma sulla base di una comune identità di genere, denunciando lo stupro quale espressione di un potere maschile secolare e di una gerarchia di genere profondamene radicata.

Non mancano i colpi di scena. La carica delle forze dell’ordine, l’abbandono dell’aula delle parti civili, la sentenza pronunciata a porte chiuse o semichiuse con i giornalisti che denunciano l’attacco inaccettabile al diritto di cronaca e scrivono al Governo. La censura arriva anche in Parlamento con diverse interrogazioni.

Filippini ricostruisce insieme ai fatti il contesto, ripercorre le tappe delle lotte per l’emancipazione e la liberazione delle donne che vede il Veneto fra le realtà più attive negli anni Settanta e seguenti. Fa capire quanta strada è stata fatta da allora e quanta purtroppo ancora ne resta da fare di fronte all’emergenza quotidiana dei femminicidi che, scrive, «è uno degli esiti più eclatanti e drammatici del contrasto tra una soggettività femminile profondamente trasformata dalla rivoluzione femminista, specie nelle nuove generazioni e un mondo maschile in cui il cambiamento si rivela alquanto disomogeneo con ampi settori ancora permeati di concezioni maschiliste, ancorati alla difesa di poteri e privilegi di genere, che vivono come minacciosa la libertà femminile». Un libro da consigliare. Un libro da regalare. Alle donne e agli uomini.

sit-in in piazza Signori a Verona durante la seconda udienza del processo (Credit Archivio Lucas Uliano)


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